Le Chiese cristiane d’Europa si sono date appuntamento a Bruxelles per discutere e confrontarsi sulle sfide dell’economia sociale di mercato, sui grandi temi, cioè, di un’economia europea altamente competitiva in un mondo globalizzato ma aperta, al tempo stesso, alla solidarietà e alla giustizia sociale. L’incontro si è svolto il 14 dicembre ed è stato promosso dalla Commissione europea, dalla Commissione Chiesa e società della Conferenza delle Chiese europee (Kek) e dalla Comece, la Commissione che riunisce le Conferenze episcopali della Comunità europea. Tra i temi al centro dei lavori, c’è stata anche la disoccupazione giovanile che è stata definita dalle Chiese come "una sfida imminente che attraversa l’Europa". "In questo tempo di profonda e cruciale crisi finanziaria, economia e sociale in Europa – spiega Frank Dieter Fischbach, della Kek – il seminario di dialogo è un’opportunità per discutere questo concetto di economia sociale di mercato e le sue conseguenze per una condivisa politica sociale ed economica in Europa e negli Stati membri". Sui temi del seminario, Maria Chiara Biagioni ha ascoltato il parere di Luigino Bruni, docente di economia politica all’Università di Milano-Bicocca.
Che cosa s’intende per "economia sociale di mercato"?
È un concetto che si sviluppa in ambito tedesco attorno alla seconda metà del Novecento all’interno della dottrina sociale della Chiesa da parte di pensatori cristiani che avevano l’idea di un’economia che fosse di mercato, ma che, al tempo stesso, salvasse la dimensione della solidarietà, con una forte presenza dello Stato nella scena economica volta a garantire quell’equità che il mercato da solo non riesce ad assicurare. Negli ultimi vent’anni, però, questa espressione è stata recepita e sposata da alcuni autori soprattutto in ambito americano fortemente conservatori e di destra. Ed è diventata poi nel tempo una specie di espressione che piace molto perché molto ecumenica, aperta al mercato e al sociale, in cui però ognuno mette dentro quello che ha in mente ma che non necessariamente è condiviso da altri. Un’espressione, dunque, che dice poco sul piano sostanziale e che va necessariamente declinata".
In che modo?
"È stato quel tentativo messo in atto dal modello economico europeo nel suo insieme, quello francese, italiano, spagnolo, che sono modelli più comunitari. Purtroppo però negli ultimi vent’anni si è fortemente affermata una forte tendenza verso il pensiero unico imposto dal modello finanziario americano. Si è perso così molto della tradizione più sociale legata anche al cristianesimo, optando per un modello dove il mercato ha le sue regole e le sue leggi e il sociale viene sempre più rimandato. La mia preoccupazione è che, mentre noi abbiamo un’antica tradizione come Europa di un mercato sociale – l’Europa nasce sociale fin dai tempi del Medioevo -, negli ultimi vent’anni, nel mondo si tende ad andare tutti verso il pensiero unico e un modello unico, quello seguito da America, Cina e Giappone".
Con quali conseguenze?
"Il mercato è un principio ma non è l’unico. Oltre al mercato c’è la dimensione pubblica e della comunità. Fino a vent’anni fa, in Europa a nessuno veniva in mente di abbinare il mercato alla scuola o alla sanità perché c’era un’idea molto chiara, secondo la quale il mercato si occupava di beni e servizi, mentre non era la logica del profitto ma la logica della comunità a muovere i beni della cultura, dell’arte, dell’educazione, della sanità. Era un’idea di forte matrice cristiana che però un po‘ alla volta è stata completamente superata e spiazzata dal modello di mercato unico, dove il mercato diventa unico criterio di tutta la vita comune".
Un modello che sì ha favorito alcuni ma ha fatto oggi dilagare povertà ed esclusione sociale. Perché non si dice che questo modello ha fallito?
"Il mercato funziona bene, quando non è l’unico criterio di riferimento. Quando è un principio accanto ad altri, come il principio di distribuzione garantito dallo Stato e i principi di solidarietà e reciprocità attivate dalla società civile, il mercato funziona bene. Quando diventa l’unico elemento determinante per tutte le scelte politiche, il mercato distrugge se stesso. L’economia ha preso un peso determinante nella vita delle persone e davanti all’incapacità di capirla è diventata una sorta di Moloch. Ed ecco, allora, che ci si affida ai tecnici e agli economisti che sono diventati i nuovi scribi che sanno decifrare il messaggio misterioso delle nuove scritture".
In questa situazione, quale ruolo possono svolgere le Chiese?
"Intravedo due ruoli importanti da svolgere. Se le Chiese nel Novecento hanno investito moltissimo nella politica formando clero e laici a questo aspetto della società, oggi la battaglia si gioca con l’economia, per cui se non si formano persone alla cultura economica, si rischia di rimanere fuori e addirittura di non saper più leggere la grammatica della società. La seconda cosa è fare opere. Nella storia d’Europa, la Chiesa nei momenti più bui di crisi ha legato il suo pensiero alle opere: ha costruito ospedali e scuole; ha fondato sindacati e cooperative perché convinta che gli ideali nascono dalle persone ma durano per le istituzioni. Senza le istituzioni, gli ideali non provocano effetti sociali. Quindi occorre fare in modo che soprattutto in questi momenti di crisi si faccia di più: se la finanza e l’economia sono in crisi, occorre che si costituiscano banche diverse. E se il mondo dell’impresa insegue un modello puramente capitalistico, occorre creare imprese cooperative".