Mentre la Paramount e Leonardo Di Caprio si stanno preparando a girare un film sull’incredibile storia del “Dieselgate”, la Volkswagen ha già perso ufficialmente a favore della Toyota il primato mondiale della produzione di automobili che per la prima volta aveva appena conquistato nel primo semestre 2015. Nel frattempo, mentre gli automobilisti si stanno chiedendo se il motore diesel abbia ancora un futuro, la Volkswagen si prepara ad affrontare un’ondata di processi che non promettono nulla di buono e che in ogni modo lasceranno un profondo segno sul colosso automobilistico di Wolfsburg, sia in termini finanziari sia per quanto riguarda il prestigio. Afflitto dalla fissazione di divenire il numero uno mondiale, costi quello che costi, il vertice della Volkswagen aveva perso ultimamente la percezione di ciò che è lecito e di ciò che, invece, non lo è. Nel prossimo anno in Europa circa 8,5 milioni di autovetture, di cui 2,4 milioni in Germania, dovranno essere richiamate nelle officine Volkswagen, negli Stati Uniti saranno almeno un altro mezzo milione e nel mondo complessivamente circa undici milioni.
Sono automobili dalle quali dovrà essere eliminato quell’incriminato software della Bosch che nei test ufficiali forniva dati non corrispondenti alla realtà delle emissioni dei gas di scarico, un software da sostituire con qualcosa che dovrà consentire alle auto di circolare rispettando le norme di legge che d’ora in poi saranno severamente controllate. Una colossale mole di lavoro: per le singole officine in Germania si calcola un’ora e mezza di lavoro per vettura a pari a 200 giornate lavorative. Un preventivo difficilmente attuabile, per cui si sta pensando anche di offrire al cliente un generoso premio di permuta per la sua vettura usata qualora decidesse di acquistarne una nuova. Si vedrà. Il Dieselgate, comunque, non è uno scaldalo che riguardi soltanto l’industria automobilistica tedesca, bensì anche la politica e per quanto riguarda la Germania anche il governo del cancelliere Angela Merkel. Molti particolari e molte responsabilità della vicenda devono ancora essere chiariti.
È ormai provato che Volkswagen e governo di Berlino fossero da qualche tempo informati del trucco delle emissioni e riesce quindi difficile capire come mai si sia corso ai ripari soltanto nel momento in cui le autorità americane si mostrarono decise a denunciare il silenzio mantenuto sul forte inquinamento causato dalle emissioni del CO2 e del NOx (biossido di carbonio e ossido di azoto) delle auto a motore diesel. D’ora in poi, in ogni modo, il controllo delle emissioni dei gas venefici sarà eseguito su strada e non come s’è fatto sinora sui rulli delle officine. Resta anche da vedere se sul banco degli accusati la Volkswagen resterà sola o se invece verranno a farle compagnia anche altre marche, come pare possibile. La Volkswagen rischia anche una condanna per aver imbrogliato lo Stato che in base ai non realistici dati d’inquinamento concesse a suo tempo agevolazioni fiscali a chi acquistò auto diesel Volkswagen. Un altro problema per il gruppo di Wolfsburg potrebbe nascere su iniziativa dei suoi stessi azionisti qualora essi decidessero di chiedere un risarcimento per le molte perdite subite dal corso delle azioni Volkswagen a causa del software incriminato, perdite che potrebbero anche aumentare in seguito alle sanzioni dei vari Stati e a causa del forte costo delle modifiche da apportare alle vetture. Secondo il Sunday Telegraph, l’avvocato Quin Emanuel, famoso per altri simili processi vinti nei confronti di Google, Sone e Fifa, starebbe già lavorando a una causa con una richiesta di danni di 40 miliardi di euro nei confronti del gruppo di Wolfsburg. La Volkswagen è sotto accusa anche in Italia, dove la Guardia di Finanza ha in corso un’indagine nei confronti della filiale Volkswagen di Verona per manipolazione dei dati sulle emissioni diesel in conformità a un’ipotesi di frode in commercio.
Severe istituzioni americane
Non è un caso se lo scandalo delle manipolazioni sui gas di scarico sia stato scoperto negli Usa, dove rispetto all’Europa c’è sempre stata una maggiore attenzione nei confronti dell’inquinamento. Già negli ultimi decenni del secolo scorso molti americani in visita nel Vecchio Continente erano soliti meravigliarsi per il fatto che in Europa le automobili continuassero a circolare senza catalizzatore, con motori del tutto liberi di girare a pieno ritmo e di avvelenare l’aria con i loro gas di scarico. Soltanto più tardi, a partire dal 1983, anche in Europa si capì che gli americani non avevano tutti i torti. La verità è che alla Volkswagen i tecnici sapevano bene che l’innovazione tecnologica necessaria per rendere le auto diesel ecologicamente accettabili aveva un costo non indifferente. L’ex amministratore delegato (ad) del gruppo Volkswagen, Martin Winterkorn aveva calcolato che ridurre le emissioni di CO2 al livello chiesto dalla Commissione Europea – dai 130 grammi del 2015 ai 95 grammi entro il 2021 – sarebbe costato al gruppo di Wolfsburg circa 100 milioni di euro per ogni grammo in meno di CO2. Per Volkswagen un costo eccessivo, fu la conclusione di Winterkorn, perché avrebbe messo in pericolo la supremazia delle automobili con motore diesel “made in Germany”.
La complicità della politica.
A zittire le perplessità della Commissione Europea ci pensò Angela Merkel la quale sin dall’inizio del suo cancellierato ha dimostrato di essere capace di grande decisione quando sono in gioco gli interessi dell’industria tedesca, fondati o no che siano. In accordo con il presidente francese Hollande, la Merkel riuscì a far rinviare a Bruxelles fino al 2030 la realizzazione di un sostanziale piano di riduzione della velenosità dei gas di scarico. Con le spalle così autoritariamente protette, il vertice del gruppo automobilistico Volkswagen ci sentì incoraggiato a lanciare negli USA una campagna pubblicitaria che propagandava il mito del “diesel pulito” dei suoi motori, ben sapendo che i dati erano truccati dal software della Bosch. Uno strumento elettronico che nei test ufficiali dava un truccato quadro delle emissioni di CO2 e NOx (ossido di azoto), che nella realtà della normale circolazione dell’autovettura erano largamente superate anche fino a venti volte. Resta da chiedersi come sia stato possibile che un simile imbroglio potesse passare inosservato per anni. Per credere, come sostiene la tesi ufficiale Volkswagen, che il raggiro fosse noto soltanto a un ristretto gruppo di tecnici, è necessaria una buona dose d’ingenuità.
Diesel fine di un’epoca
Accettare la perdita dell’importanza del motore diesel, sempre molto decisivo per la crescita del gruppo Volkswagen, è uno shock che soltanto gradualmente il vertice di Wolfsburg sarà in grado di assorbire. Si può scommettere che i tecnici Volkswagen stiano già lavorando giorno e notte per renderlo il più possibile “pulito” con il ricorso alle tecniche più ricercate, come il sistema AdBlue, per esempio, che prevede l’iniezione di un additivo nel catalizzatore in grado di neutralizzare buona parte gli ossidi di azoto dei gas di scarico. Questo sistema però è molto costoso e anche voluminoso e quindi realizzabile solo su auto di grossa cilindrata, mentre è esclusa a priori la sua applicazione nelle auto più piccole. Come nella Polo, per esempio, che probabilmente d’ora in poi sarà equipaggiata soltanto con motore a benzina a tre cilindri, come uno dei modelli della Fiat 500 già da qualche tempo sul mercato. La Volkswagen si impegnerà sicuramente, molto di più di quanto abbia fatto sinora, anche nello sviluppo delle auto elettriche. La prima che vedremo nel 2017 sarà la Phaeton, la vettura più cara del gruppo Volkswagen, ma poi arriveranno sul mercato anche auto ibride con motori funzionanti con diverse energie, in grado di far rispettare alla flotta del gruppo le severe norme EU e naturalmente anche quelle ancora più severe degli USA. Resta da vedere fino a che punto sarà possibile rendere “pulito” il diesel e come reagirà la politica. Il trend generale è quello di un’eliminazione della circolazione delle auto dalle grandi città, come ha deciso ultimamente il governo norvegese per la città di Oslo a partire dal 2019. L’industria automobilistica dovrà per forza di cose prenderne atto.
Radicale ristrutturazione VW
Un’impresa non facile a causa del forte ruolo tradizionalmente svolto dal sindacato a Wolfsburg sarà ristrutturare un colosso automobilistico con 600mila dipendenti, quasi il doppio di quelli della Toyota a parità di auto prodotte, che guadagna soltanto grazie alle Audi, alle Porsche e alla Skoda ma non con la marca centrale Volkswagen. Un sindacato, quello del potente IG-Metall, non sempre improntato a una visione globale delle attività del gruppo e che potrebbe essere un arduo ostacolo all’ormai necessario e inevitabile rinnovo del “sistema” Volkswagen che è sempre stato caratterizzato da un ferreo centralismo. I molti processi che la Volkswagen del nuovo amministratore delegato Martin Müller ha davanti a sè sono molti e difficili. Potrebbero trascinarsi per anni con effetti deleteri sulla capacità concorrenziale del gruppo Volkswagen, proprio ora che ha dovuto rimettere nel cassetto il sogno di essere il numero uno mondiale davanti alla giapponese Toyota.

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