Nella foto: Bambine afghane che vanno a scuola, situazione che non sarà più possibile con il regime dei talibani. Foto di WikiImages su Pixabay

Terrore islamico e burocrazia tedesca

L’estate appena trascorsa ci ha portato eventi apocalittici che, benché fossero stati preannunciati, hanno colto di sorpresa le autorità competenti. Qui non vogliamo trattare dell’alluvione nell’Ahrtal, una tragedia circoscritta che ha fatto più di 190 morti, che si potevano salvare se le autorità (in)competenti avessero reagito tempestivamente all’allarme dei meteorologi. Parliamo invece della tragedia afghana che ha toccato il mondo intero. Chi non è troppo giovane ne ricorderà l’inizio: lo spettacolare attentato terroristico alle torri gemelle sulla punta di Manhattan, avvenuto esattamente 20 anni fa. Il presidente Bush jr. ne fece un casus belli contro l’Afghanistan, colpevole di ospitare sul suo accidentato territorio l’organizzazione terroristica Al Qaida del principe arabo Osama Bin Laden, che aveva organizzato il colpo grosso nel fanatico odio contro gli americani, colpevoli ai suoi occhi di tentare di esportare il loro modello di vita ed i loro principi democratici nel mondo islamico.

Bush proclamò ufficialmente la guerra al terrorismo

Facendo leva sulle clausole del trattato della NATO, in quanto nazione che aveva sofferto un attacco, gli americani si trascinarono appresso nella crociata i loro alleati italiani, inglesi, francesi, spagnoli, polacchi, e compagnia bella. Nel giro del primo anno di combattimenti la NATO riuscì a distruggere tutte le basi di Al Qaida che erano concentrate nella regione di Tora Bora, ed a far crollare il regime ultrareligioso dei talebani che da anni opprimeva il paese. A questo punto le potenze occidentali avrebbero potuto dichiarare di aver raggiunto i propri obiettivi e ritirarsi contente e soddisfatte. Invece decisero di restare a tempo indeterminato, il che ha subito fatto sospettare a molti osservatori che, sotto sotto, ci fossero degli obiettivi segreti. Ufficialmente vennero sbandierati i più nobili ideali per giustificare uno stato di occupazione prolungato che comportava un enorme sforzo logistico ed economico nonché umano. Il territorio dell’Afghanistan è uno dei più difficili del globo: nel suo centro s’innalza una delle più colossali catene montuose, l’Hindukush (nome sinistro che significa „assassino degli indiani“), con vette che superano i 7.000 metri. Normalmente tali ostacoli naturali fungono da confine fra nazioni diverse, come l’Himalaya fra l’India e la Cina, o le Ande fra Cile e Argentina, o le Alpi fra Italia ed Austria. Questo significa che tutte le comunicazioni fra le varie parti dello stesso paese devono fare i conti con questa barriera orografica quasi insormontabile. A ciò si aggiungono le infrastrutture assai primitive, la povertà cronica e la disomogeneità etnica. Basti pensare che non esiste neppure una lingua nazionale afghana vera e propria, come l’italiano per noi, o il francese per la Francia. Invece si usano come lingua franche quelle di due gruppi etnici rivaleggianti, e cioè il Pashtu (legato al Pakistan) e il Dari (legato all’Iran), ma tutti gli altri gruppi etnici si attengono alle proprie. E ce ne sono tanti: oltre ai Pashtuni, abbiamo i Dari, i Beluci, i Tagiki, gli Usbeki, i Gurjar, gli Hazara, gli Aimak, i Turkmeni, i Nuristani… Tirare avanti in un paese del genere è praticamente impossibile senza l’ausilio di collaboratori originari del luogo.

Ma proprio qui sta un grosso problema

Questi collaboratori afghani (traduttori, autisti, cuochi…) sono considerati dai talebani e da parte della popolazione come dei traditori al soldo dello straniero, e perciò meritevoli di morte. Affinché costoro non cedessero alle minacce e li piantassero in asso, gli occupanti hanno promesso loro di portarli tutti in salvo con sé -si badi- assieme alle loro famiglie. Ora, secondo la burocrazia tedesca, la famiglia è composta solo da mamma, papà e figli minorenni: appena uno raggiunge la maggiore età non vi appartiene più. Gli afghani hanno tutta un’altra idea di famiglia, secondo tradizioni più che millenarie: anche una zia vedova, ad esempio, viene assunta in famiglia e ne è un membro di tutto rispetto.

Quindi l’opera di salvataggio promessa, anche se mantenuta, ha l’effetto di vivisezionare una grande famiglia dividendo i genitori dai figli, i fratelli dalle sorelle. Ma il più delle volte neppure la promessa minimale è stata mantenuta, come dimostrano i drammatici giorni all’aeroporto di Kabul. Nell’enorme calca le donne e i bambini sono rimasti indietro, e quasi soltanto uomini sono riusciti a partire.

È difficile al momento valutare l’ammontare dei danni materiali oltre a quelli morali. Poiché quello che molta stampa tedesca chiama „inerzia colpevole del governo“ ha abbandonato migliaia di persone in ostaggio alla furia dei Taliban, adesso si dovrà riscattarle al prezzo che vorranno loro, ma che certamente graverà parecchio sul debito pubblico, proprio in questo momento in cui l’economia dovrebbe risollevarsi dalla crisi del Covid. Che congedo disonorevole per il governo della Merkel!

Molto più gravi sono però i danni morali

Lo stato democratico sembra aver abdicato alle sue funzioni, che sono peraltro la giustificazione della sua stessa esistenza. E questo proprio nel momento che da certi angoletti oscuri partono attacchi alla sua legittimità. Ne approfitta pure la Russia per dimostrare a tutti che lo stato autoritario di Putin è il migliore, il quale vuole organizzare dei voli civili per Kabul per portare in salvo i poveri occidentali piantati in asso dal proprio stato. Per la Germania, che è sempre stata apprezzata a livello internazionale per la propria affidabilità, tale perdita di credibilità equivale alla distruzione d’un grande patrimonio. Se mai i tedeschi s’imbarcheranno in qualche missione futura, dove mai troveranno qualcuno pronto a credere alle loro promesse? Dopo venti anni di missione all’estero è tutto ritornato come prima, si lamentano molti commentatori.

Ma è stato davvero tutto inutile?

Questo soltanto con il tempo si potrà giudicare. Eppure già da adesso delle differenze saltano agli occhi: quando i talibani hanno conquistato per la prima volta Kabul, nel 1996, l’intera popolazione li ha accolti a braccia aperte come dei liberatori, gettando fiori sui loro carri. Oggi invece al loro arrivo si è diffuso il panico generale, con fughe in massa verso i confini e verso l’aeroporto: segno questo che da allora ad oggi qualcosa è radicalmente cambiato nella mente di molti afghani. Dopotutto venti anni di occupazione da parte degli occidentali significano segnare un’intera generazione. A differenza dei russi, sembra che gli occidentali della NATO siano riusciti ad imprimere più durevolmente un segno della loro cultura. Nel corso di questo ventennio innumerevoli donne hanno potuto godere di libertà prima inimmaginabili per loro, e adesso che hanno imparato ad apprezzarle, non sono più disposte a rinunciarvi.

Per quanto i talibani possano reprimerle, non riusciranno a cancellarle dalla loro mente.

Secondo i dati statistici, il tasso di alfabetizzazione della popolazione afghana, che era solo del 18,2% nel 1979, era già salito al 33,4% nel 2015 arrivando al 43,0% nel 2018. Mancano dati ancora più recenti, ma si sa che anche in Afghanistan le scuole hanno risentito della crisi del Covid. Tutto questo progresso è merito delle organizzazioni di assistenza occidentali che si sono installate dopo la caduta del primo regime dei talibani. Questi adesso si troveranno a governare un popolo in parte cambiato dal diffondersi di una cultura da loro aborrita. Recentemente è stato pubblicato dall’editore Neri Pozza il memoriale molto interessante di un afghano naturalizzato italiano di nome Farhad Bitani. È il figlio di un generale dell’esercito afghano passato attraverso tutte le tragedie storiche del suo paese, dall’invasione dell’Unione Sovietica a quella della NATO. Il titolo del libro è „L’ultimo lenzuolo bianco“ con allusione al sudario dei morti. Le esperienze di vita vissuta che vi si raccontano superano in barbarie i più orrifici scritti di Oriana Fallaci. Orbene, scrive Bitani a proposito della dittatura dei talibani, che lui ha vissuto di persona sul posto: „La triste verità è che, senza l’ignoranza del suo popolo, il mullah Omar non avrebbe ottenuto simile consenso. La sua forza risiedeva nello sfruttare l’ignoranza della gente a proprio vantaggio, perché solo chi è privo d’istruzione, privo di mezzi, può essere facilmente governato.“ E poi aggiunge: „I talebani si sono accaniti contro le donne e contro l’educazione, due elementi fondamentali per la crescita di una società. Quando una donna viene sottomessa, i suoi figli possono essere manipolati dai poteri forti, da falsi ideali.“

Riguardo l’unico tipo di cultura ammesso dai talebani, scrive Bitani: „I talebani studiavano per due o tre anni in Pakistan, alla scuola coranica, dove si insegnava quello che ordinava il mullah Omar. Si imparava soltanto quello che era lecito imparare. Uno dei miei amici aveva studiato in una di queste scuole. Spesso mi raccontava che il sogno della sua vita era di uccidere almeno un infedele. Non c’era nulla che desiderava di più che bagnarsi le mani del sangue di un peccatore.“ Erano stati eccitati all’odio, fra l’altro, da immagini di donne occidentali in spiaggia col costume da bagno. Questo tipo di „cultura“ fa a pugni con quella occidentale, e difficilmente potrà installarsi nelle teste già formate al pensiero critico. Adesso, quanto a barbarie, i talebani sembrano aver trovato pane per i loro denti. Col sanguinosissimo attentato all’aeroporto di Kabul si è fatto vivo un pericolosissimo concorrente, l’ISIS, lo Stato Islamico che tanti s’illudevano definitivamente sconfitto in Irak.

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