Anche quest’anno si celebra con il “giorno della memoria” la liberazione di Auschwitz ad opera dei soldati russi. Tre quarti di secolo sono trascorsi dalla fine della seconda guerra mondiale. All’inizio del 1945 i giochi erano già fatti, per l’Asse era solo questione di tempo. Fu in quell’ultimo mezz’anno che si rivelarono i fatti più terribili. Nelle ultime pagine del suo libro “Gli assassini sono fra noi” (Garzanti 1970) Simon Wiesenthal ricorda come le SS si divertissero ad ammonire i loro prigionieri che se anche qualcuno di loro fosse riuscito a sopravvivere, il mondo non avrebbe mai creduto ai loro racconti: “perché distruggeremo le prove insieme con voi. E quand’anche qualche prova dovesse restare, e qualcuno di voi sopravvivere, la gente dirà che i fatti che voi raccontate sono troppo mostruosi per essere creduti: dirà che sono esagerazioni della propaganda alleata e crederà a noi, che negheremo tutto, e non a voi”. Questo calcolo cinico di giocare sull’incredibilità dell’eccesso per farsene uno scudo di verosimiglianza, non ha funzionato solo per le circostanze che si verificarono in quegli ultimi mesi di guerra. È vero che gli assassini, in fretta e furia, hanno distrutto molte prove, ma ne sono rimaste abbastanza per inchiodarli alle loro colpe. I negazionisti, che fanno il gioco delle SS come previsto, ci sono: ma non hanno facile gioco. Più astutamente, alcuni storici cercarono di declassare e banalizzare tutto l’accaduto interpretandolo come una difesa preventiva contro la bestia bolscevica: ad esempio il beniamino di certa cultura di sinistra (italiana) Ernest Nolte. Ma un vero uomo di cultura come Norberto Bobbio ha scritto che i campi di annientamento nazisti sono stati “Non uno degli eventi, ma l’evento mostruoso, forse irripetibile, della storia umana”.

Quando 75 anni fa l’Esercito Sovietico si trovò di fronte ai campi di concentramento di Auschwitz, molti soldati russi non si resero subito conto di cosa si trattasse. Nel Nr. 5 (2020) del settimanale “Der Spiegel”, l’ex-ufficiale sovietico Martynuschkin, che allora aveva 20 anni, ricorda per prima cosa la puzza velenosa che circondava il campo e che si sentiva nell’aria prima ancora di avvistarlo. Da lontano, pensarono trattarsi di un accampamento militare tedesco, e solo un po’ per volta, faticosamente, si resero conto dell’enormità della cosa che gli stava davanti. Un racconto perfettamente analogo, ci è fornito indipendentemente dal GI americano Don Greenbaum, che partecipò alla liberazione di Dachau. Avvicinandosi al campo, per prima cosa lo colpì una puzza nauseabonda tanto che alcuni suoi commilitoni non ressero e dovettero vomitare. Poi vide sui binari 15 vagoni abbandonati e pieni di cadaveri in decomposizione che vi stavano accatastati come tronchi di legno: gli assassini in fuga non avevano fatto in tempo a nascondere il corpus delicti. Mentre le camere a gas ed i forni crematori di Auschwitz furono fatti saltare in aria, quelli di Dachau sono rimasti intatti e si possono visitare ancora oggi.

Fra 25 anni sarà passato un secolo dai fatti, e possiamo pensare che essi avranno perduto la loro violenza? Probabilmente no. Semmai sono da temere l’ignoranza e la riduzione a luogo comune che porta con sé l’assuefazione e l’indifferenza. E l’indifferenza è l’anticamera della barbarie, come ha detto il nostro presidente Mattarella. Ma può anche essere colpa della cattiva scuola: molti giovani sanno così poco di storia, che mancano loro pure i punti di riferimento più elementari, né si sentono invogliati, a maggior ragione se all’esame di maturità viene soppresso il tema di storia. Eppure il successo che hanno le conferenze di valenti storici come i prof. Barbero, Feniello, ed altri, dimostrano come l’indifferenza alla storia è più un prodotto del modo di raccontarla, che della materia stessa.

D’altro canto un approccio didattico o, peggio ancora, moralistico alla narrazione dei fatti non può che indurre le menti dei soggetti a sviluppare delle resistenze, degli anticorpi, poiché la tabuizzazione di una cosa ha l’effetto psicologico di elevarla davanti agli occhi di molti ingenui. E poi esiste un fascino sinistro nell’estremo negativo, lo stesso tipo di fascino di Jack lo squartatore e del conte Dracula, a cui soggiace molta gente, come quella che s’incontra per il mercato delle pulci di Budapest alla ricerca di cimeli autentici delle SS. Forse non tutti quelli che si dichiarano spavaldamente per nazisti gridando “Sieg Eil” lo sono per davvero, magari all’inizio si tratta solo di atteggiamenti tanto clamorosi quanto superficiali; però chi li assume prima o poi finisce per diventarlo davvero: un po’ come chi si dedica ai ridicoli e grotteschi riti satanici. Fin dall’inizio le SS hanno sedotto molti giovani con il fascino del corpo elitario, e sedussero perfino molti italiani con la loro aura di esseri superiori. Ma se la meritavano? Ha scritto Primo Levi: “Le SS dei Lager erano piuttosto bruti ottusi che demoni sottili. Erano stati educati alla violenza: la violenza correva loro nelle vene, era normale, ovvia. Trapelava dai loro visi, dai loro gesti, dal loro linguaggio. Umiliare il loro nemico era il loro ufficio di ogni giorno; non ci ragionavano sopra, non avevano secondi fini; il fine era quello” (da “I sommersi e salvati” Einaudi 1986). Il che si ricopre molto bene con la proverbiale “banalità del Male” di Hannah Arendt. In altre parole, una SS standard consisteva in 5 metri di stoffa nera e in un viso stupido.

A questo punto torniamo a consigliare la lettura dei tre capolavori in cui Primo Levi ha messo a frutto la sua detenzione ad Auschwitz: il primo “Se questo è un uomo” è il racconto a fior di pelle della sua allucinante esperienza, il secondo “I sommersi e i salvati” è una riflessione filosofica più distanziata su di essa, ed il terzo, “La tregua” è il racconto di un doppio ritorno dopo la liberazione dalla prigionia: sia il suo ritorno materiale nella sua città Torino, sia il suo ritorno psicologico alla dignità di essere umano. Quest’ultima via che purtroppo non guiderà tutti alla meta.

Lascia una risposta

Please enter your comment!
Please enter your name here