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Affittasi utero materno per un periodo non superiore a nove mesi, ampia centimetratura e in buone condizioni. Disponibile anche artificiale

L’uso delle tecnologie riproduttive (tra cui l’inseminazione assistita in vitro, la cd. FIVET ; la Fecondazione assistita in vivo e la Fecondazione Artificiale Intermedia) ha sollevato alcune questioni bioetiche inerenti alla gestazione dell’embrione quale prodotto trasferibile ossia quelle sulla maternità surrogata e la ectogenesi.

La maternità surrogata consiste nella possibilità che una donna offra gratuitamente o a pagamento (in quest’ultimo caso, mediante: delega, affitto, commissione, prestito oppure locazione d’utero) il proprio utero per la gestazione di uno o più embrioni.

In materia, la dottrina è letteralmente spaccata in due: da una parte alcuni autori ritengono che la maternità surrogata debba essere intesa come atto gratuito, in quanto la donazione della maternità gestazionale è subordinata alla generosità e all’altruismo filantropico; altra parte della dottrina qualifica la maternità surrogata come un atto meritevole di retribuzione: la donna concede la sua autonomia nella gestione e nella disponibilità del proprio corpo (secondo quest’ultimo punto di vista, la donna verrebbe parificata all’uomo: così come esiste il donatore di semi, analogamente la donna donatrice di gameti femminili nonché la madre sostituta per la gestazione).

Piuttosto, l’analisi sulla maternità surrogata deve essere condotta sotto un’altra ottica. Infatti, non si considerano assolutamente gli interessi di chi verrà a nascere mediante la procedura in esame. Peraltro, le conseguenze che ne derivano sono a dir poco catastrofiche: l’assoluta spersonalizzazione della nascita; la separazione tra sessualità, procreazione, gestazione; la frantumazione della figura materna e la conseguente sostituzione della stessa da parte della madre gestativa. Inoltre, il nascituro, posto dinanzi a più figure di riferimento (la madre genetica e quella sociale), si troverebbe in uno stato confusionale per quanto concerne la sua identificazione. D’altra parte, la madre sociale potrebbe ben contrapporsi alla madre portatrice sulle scelte psicologiche e pedagogiche del nascituro (ciò comportando delle ricadute negative sulla salute, mentale e psichica, del nascituro stesso).

In tale contesto, dunque, il Biodiritto è chiamato a garantire la certezza della maternità al nascituro: bisognerebbe riconoscere la maternità a colei che partorisce. Un contratto tra coppia committente e donna che presta l’utero non darebbe mai garanzie in quanto quest’ultima potrebbe essere protetta dai possibili rischi che incorrerebbe nel periodo della gestazione oppure potrebbe non rispettare il patto (in quest’ultimo caso si tutelerebbe la donna che ha stipulato il contratto).

Come si era detto in apertura, una questione ulteriore sulla gestazione dell’embrione è da rinvenirsi nella cd. Ectogenesi ossia una gravidanza extracorporea in un utero artificiale.

È possibile distinguere l’ectogenesi in parziale (consiste in un intervento dopo una prima fase di vita intrauterina, nel preciso momento in cui il feto ha il cordone ombelicale da applicare a macchinari capaci di nutrire, ossigenare e depurare il sangue del feto) e totale (prevede la fabbricazione di uteri come incubatrici meccaniche con una placenta artificiale, membrana e liquido amniotico surrogati in grado di far sopravvivere un embrione e un feto fuori del ventre materno, sostituendo l’organismo materno nelle funzioni nutritive e di scambio dal 5° giorno dalla fecondazione – allo stadio dei blastociti – fino alla 35° settimana di gestazione).

Attualmente, l’ectogenesi risulta soltanto un progetto medico-scientifico non ancora realizzato concretamente. Tuttavia, sarebbe fin da subito necessario dover rilevare la legittimità o meno di tale tecnica, fondando le basi della seguente riflessione sulle problematiche relative alla disponibilità del corpo e della sessualità nonché sul rapporto uomo-donna, la famiglia e la società.

Effettivamente, l’ectogenesi potrebbe porsi, nei confronti della donna, quale soluzione alternativa e meno “sofferente” della gravidanza naturale, ponendola in una posizione egualitaria rispetto all’uomo, in quanto può realizzare il proprio desiderio di aver un figlio senza il gravoso onere della gestazione. Inoltre, è possibile portare avanti gravidanze per donne che non hanno l’utero, senza fare ricorso a maternità surrogate e, dunque, evitare aborti spontanei, desiderati e non.

Purtroppo, l’ectogenesi solleva anche notevoli problematiche: infatti, verrebbero usati, strumentalizzati e sacrificati un numero elevato di embrioni soltanto per sperimentare un apparato sostitutivo del grembo materno. Il danno ulteriore verrebbe realizzato tramite la separazione tra la madre genetica e la madre uterina, spezzando, secondo un punto di vista prettamente naturale, il legame tra la madre e il figlio.

Con questa tecnica, si assisterebbe ad una de-sessualizzazione della procreazione, favorendo la diffusione di famiglie monoparentali e omoparentali (basti pensare a tutti quei casi di bambini senza genitori oppure di procreazioni anonime. Poi, non sarebbe possibile, sempre dal punto di vista del bambino, ottenere diritto ad avere riferimenti familiari genitoriali eterosessuali).

Volendo tirare le somme, l’ectogenesi e la maternità surrogata risultano essere un ottimo materiale di meditazione: la donna deve assolutamente escludere dai suoi pensieri l’idea di una gravidanza intesa come una schiavitù, un limite, bensì un privilegio, una rara opportunità di vivere una relazione carnale con il proprio bambino che nascerà fin dall’inizio.

Così, eliminando la gravidanza, e dunque il parto, si rischia di realizzare un danno irreparabile: la modificazione della concezione della maternità e del ruolo della donna.

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