Sono oramai passati quarantacinque anni da quella terrificante notte tra il primo e il due novembre 1975, nel corso della quale Pier Paolo Pasolini, uno dei più grandi intellettuali dello scorso secolo, fu ucciso, percosso e travolto dalla sua stessa auto sulla spiaggia dell’idroscalo di Ostia. Un omicidio assurdo che, tutt’oggi, è avvolto in un mistero. Un mistero che, come tanti altri che riguardano la Storia del nostro Paese, pare destinato a restare irrisolto per sempre.

Ma non è della morte di Pasolini che vi voglio parlare. Il tema, considerata la rubrica nel quale va collocato il mio articolo, riguarda la Giustizia, quella con la “G” maiuscola – sempre premesso che essa esista.

La Giustizia – quella dea inesistente

La mia tesi di fondo, infatti, è proprio questa: la Giustizia non esiste, ma tutti – stranamente – ne abbiamo un’idea ben precisa. Non esiste come misura delle cose, come “termometro del male” oppure come – in molte rappresentazioni artistiche – dea cieca che prende le decisioni giuste ed eque senza pregiudizi, o preconcetti (proprio perché non ci vede).

La Giustizia, tuttalpiù, va collocata in uno spazio ben preciso, che possiamo anche definire “territorio” – non tanto come luogo, ma più che altro come mentalità e costumi – e, ovviamente, in un contesto temporaneo, anzi, molto temporaneo.

Vale a dire: quello che magari cinquant’anni fa poteva essere “giusto”, oggi magari è ingiusto oppure addirittura inaccettabile. Un esempio lampante riguarda la prostituzione in Germania: vietata fino alla fine degli anni novanta, dal 2001 è legale. Ne risulta che tutto quello che fa parte di quel mondo a luci rosse, assume un valore diverso: una prostituta, ad esempio, può chiedere un sussidio se a causa del Coronavirus non può lavorare. Oppure ancora può usufruire dei servizi della cassa mutua se si ammala e non può lavorare.

L’odissea giudiziaria di Pasolini

Bene. Ma cosa ha a che fare questo discorso del valore relativo della Giustizia con Pasolini, il critico del conformismo e del consumismo?

E’, infatti, più che noto che Pasolini subì durante la sua pur breve vita una vera e propria odissea giudiziaria, che lo portò sul banco degli imputati in ben trentatré processi, sotto i più diversi capi d’accusa, dai quali tuttavia uscì (quasi) sempre assolto: da quelli collegati alla sua omosessualità, a partire dal primo, celebrato nel 1952 a Pordenone per il cosiddetto scandalo di Ramuscello, a quelli conseguenti al suo operato artistico, di volta in volta chiamato in causa per “vilipendio”.

Giusto per fare qualche esempio: nell’autunno 1962 Pasolini girò un mediometraggio su una ricostruzione cinematografica della “Passione di Cristo” dal titolo “La ricotta”. Il film uscì il primo marzo del 1963 e fu sequestrato lo stesso giorno della sua uscita con l’accusa di “vilipendio alla religione di Stato”. Un altro processo arrivò per il film “Decameron”, ispirato alle novelle del Boccaccio, che subì una persecuzione continua: fioccarono denunce da tutte le parti d’Italia. Il film, ovviamente, venne sequestrato. Stessa cosa accade alla pellicola “I racconti di Canterbury”. Pasolini fu accusato di oscenità.

Insomma, le disavventure giudiziarie di Pasolini danno un quadro chiaro del clima persecutorio in cui si muoveva. Alberto Moravia una volta su l’Espresso scrisse a proposito: “L’accusa era quella di vilipendio alla religione. Molto più giusto sarebbe stato incolpare il regista di aver vilipeso i valori della piccola e media borghesia italiana”. Addirittura anche dopo la sua morte fu messo a processo il suo ultimo film “Salò o le centoventi giornate di Sodoma”, censurato e vietato.

La relatività della Giustizia

Ma, senza voler entrare nei meriti e nei dettagli dei processi, quale era la vera colpa di Pasolini, conosciuto come il timido ma scandaloso disobbediente, l’eretico, “il diverso” per antonomasia che, in nome di un suo ideale di “libertà”, ha trasgredito ogni forma di tradizione?

Era quella di essersi schierato radicalmente dalla parte dei diseredati, di cui l’Italia degli anni 60 e 70 non pareva voler prendersi cura. Pasolini non era da solo in questa battaglia: con lui si battevano le penne di Moravia, di Fenoglio, di Rossanda, della Fallaci e le voci di de André, di Guccini o di de Gregori, che hanno fatto di tutto pur di dare una voce a quello che a quei tempi si considerava il sub-proletariato. Era, dunque, quasi inevitabile, dunque, che questo scomodo “poeta maledetto” – come si autodefiniva Pasolini – doveva essere messo a tacere, se non con la violenza, almeno con dei processi.

Ma cosa ci insegnano queste vicende di Pasolini? Se si considera che alcuni reati di cui Pasolini fu accusato – come quello di “vilipendio alla religione di Stato” – oggi non esistono più (perché cancellati dal codice penale), ne deduciamo la relatività della Giustizia come metro di giudizio di chi legifera e di chi giudica. Le leggi cambiano. Cambiano perché cambia la società, cambiano le menti di chi le fa e, ovviamente, anche i punti di vista di chi giudica in base alle leggi. Dire “questo è giusto” è un’affermazione che non ha un valore in sé, ma, al massimo, può avere un valore se inserita in un contesto storico ben preciso. Libertà, eguaglianza e giustizia dipendono da come vengono interpretate. La Costituzione tedesca ne è un nitido esempio: l’unico termine giuridico a non essere sottoposto ad esame è la dignità dell’uomo (art. 1 e 79 del Grundgesetz – assieme alla democrazia e lo stato di diritto). Il resto è a disposizione del legislatore. E quando scrivo “il resto” intendo “tutto il resto”.

Pasolini stesso, in una sua poesia, mette in luce questa relatività della Giustizia e scrive: “La Poesia è Giustizia. Giustizia che cresce in libertà, nei soli dell’anima, dove si compiono in pace le nascite dei giorni, le origini e le fini delle religioni, e gli atti di cultura sono anche atti di barbarie, e chi giudica è sempre innocente”. Appunto: chi giudica è sempre innocente.

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