Nella foto: Cristina Simonelli

Teologia delle donne – Intervista a Cristina Simonelli, docente di patristica a Milano e Verona

Nel Convegno nazionale della Delegazione delle Missioni cattoliche italiane in Germania dello scorso ottobre due biblisti, Fernando Armellini e padre Marwan Youssef, diversi per formazione, per origine e per età, indicarono, nell’esegesi dei versetti della Genesi “…maschio e femmina li creò”, in adam l’umano prima della separazione fra maschile e femminile. Da qui procede che Eva non sia una derivazione dell’uomo, quindi un gradino più lontano dal divino, ma che maschio e femmina vengono dal quell’adam, umano non ancora distinto nei due sessi. Questa esegesi è liberatoria e ha una grande potenza di ricaduta anche sul discorso teologico. Ne parliamo con la teologa Cristina Simonelli, presidente del Coordinamento teologhe italiane.

Chi è Eva oggi?

Mi introduco con questa domanda, che risuona per me in questi tempi in maniera particolare perché, non certo da biblista, sono stata richiesta di un lavoro proprio su Eva, che uscirà per una casa editrice italiana, Il Mulino, a breve. La prima cosa che mi è venuta in mente, quando mi è stato chiesto il libro, è una citazione di Pirandello “una/nessuna/centomila”. Eva è figura di potenza materna, come spiega il testo biblico aggiungendo un gioco di parole che nelle traduzioni si è perso: “si chiamerà Vita” (poi traslitterata in Hava/Eva), perché, appunto, “madre dei viventi”. Se poi la creazione dell’essere umano giunge al vertice della creazione degli altri esseri, la donna… arriva al vertice del vertice! Risposte maliziose? Sì, lo ammetto! Ma che hanno il vantaggio di “smontare” le interpretazioni che abbiamo dato del testo, mostrando che ci abbiamo messo tanto di altro, proiettando su di esso la situazione di subordinazione delle donne, che si riscontra nella maggior parte delle culture, per non dire in tutte. Al di là di questo e prima di questo, l’osservazione da cui abbiamo preso avvio è certo ancora più importante: l’idea cioè di un nome collettivo adam che porta con sé ogni possibile differenza ma anche ogni pari dignità. E che tiene dentro di sé anche la parola “terra” (adamà) da cui è stato tratto, richiamo non solo di comune radice, ma di condivisa fragilità. Le situazioni di crisi collettiva potrebbero e dovrebbero confermarci in questo.

Che cos’è la teologia delle donne? È una ricerca storica sulle figure femminili della chiesa, sante, religiose e laiche? È scoprire e portare alla luce le figure femminili dell’Antico e del Nuovo Testamento? È una branca specifica dell’esegesi biblica che dà contributi interessanti ma che resta marginale e secondaria? Oppure la teologia delle donne dialoga alla pari, aprendo orizzonti nuovi per tutti, donne e uomini?

Certamente è tutto questo – e questo prima di tutto. Mi spiego, si può dire che alla sua nascita effettiva nel secolo scorso si è trattato soprattutto di rivisitare i testi biblici, per disincrostarli da interpretazioni o anche da sottolineature che li distorcevano: Elisa Salerno, una donna vicentina di inizio ‘900, ha scritto tra l’altro un Commento alle note di un vescovo, che a suo parere (e aveva anche ragione) erano contro le donne e alla fine anche contro la più profonda ispirazione biblica. La stessa cosa è poi accaduta anche per la rilettura della storia e dei testi cristiani dei secoli passati, che hanno restituito e continuano a restituire tante cose interessanti: nomi, figure scritti di donne, prima di tutto. Ma anche, affinando la metodologia, portano alla luce meccanismi di rimozione, ancora più utili spesso di singoli dati. Per fare un esempio, se si trovano indicazioni su cosa possono fare le diacone o regole che dicono di non dare troppa autorità alle donne, questi testi si devono leggere non solo per quello che prescrivono ma in qualche misura per quello che descrivono, loro malgrado, lasciando trapelare cioè presenze autorevoli di donne. Accanto a questo la teologia delle donne è però anche molto altro: attraversa infatti tutti gli aspetti della teologia, dall’immaginario su Dio all’idea di salvezza, dalla liturgia alla morale. Non per fare un’altra cosa, una specie di setta femminile, ma per innervare l’intero discorso teologico con la salutare finitezza della rivelazione, cioè con l’attenzione alla storia, alle differenze.

C’è attualmente un forte interesse editoriale verso gli studi e i lavori di voi teologhe. Ci sono molte pubblicazioni, recentemente la collana “Madri della fede” della Sanpaolo. Come ve lo spiegate?

Penso che si tratti di un segnale importante: basta pensare che alcuni anni fa, non moltissimi, quando abbiamo cercato di aprire una collana editoriale, l’impresa è stata semplicemente rifiutata. È dunque segnale di un desiderio e insieme di un disagio: disagio sulla situazione che viviamo adesso, e desiderio di ritrovare i fili di un discorso più inclusivo, più vicino infine alla vita così come la sperimentiamo. Madri della fede è particolarmente felice, perché sta riuscendo a tenere una modalità non ingenua ma insieme narrativa e gradevole, così da poter interessare sia esperti che semplici curiosi. Ne abbiamo però avviate altre, fra le quali una serie che si chiama Exousia (autorità) e che sarebbe rivolta proprio a studenti e studiosi. Perché effettivamente nonostante molti buoni rapporti con colleghi, non si può dire che i testi delle teologhe siano sempre presi in considerazione.

Parlando di teologia delle donne non si può eludere la questione del ministero delle donne. Nella chiesa cattolica tedesca questo dibattito è molto vivace, è uno dei quattro temi del Synodaler Weg, viene discusso, anche in modo acceso con posizioni apertamente contrapposte, ma senza tabù. La Conferenza episcopale tedesca ha scelto per la prima volta una donna e una laica come segretaria generale, la teologa Beate Gilles. Che cosa arriva in Italia di questo processo sinodale tedesco e di questo fermento? Si ha la percezione qui che arrivi distorto suggerendo l’idea che la chiesa tedesca voglia la scissione.

L’Italia è spesso penalizzata dalla sua scarsa abilità linguistica, anche se le giovani generazioni sono un po’ più internazionali. Diciamo anche che a livello ecclesiastico non c’è alcun interesse a parlarne… perché c’è il timore della forza e della libertà che le donne tedesche ma anche la chiesa tedesca nel suo insieme manifestano. Nell’ambiente delle teologhe (www.teologhe.org) e dei movimenti di donne cattoliche (tipo Donne per la Chiesa) c’è invece grande interesse e stima.

Quando si parla di ministero femminile, diaconato o addirittura sacerdozio, si tratta di una questione di potere?

Spesso ci viene rivolta una osservazione di questo genere. Si tratta di intendersi, credo, sulle parole: se potere è sinonimo di strapotere e clericalismo, è qualcosa di negativo. Ma non meno negativo è questo quando si riscontra presso gli uomini, non c’è dubbio. Se invece per potere si intende che l’autorevolezza debba diventare autorità non vedo perché debba essere negativo: una madre non dovrebbe avere autorità nella famiglia? Lo trovo assurdo. Penso che la questione dei ministeri delle donne – nel loro insieme, senza ora entrare nelle differenziazioni – sia necessaria in primo luogo per la chiesa, non per le donne. Ne va della autenticità della compagine ecclesiale: i criteri di buon esercizio della leadership sono necessari, ma lo sono per gli uomini come per le donne.

Spesso si dice che la chiesa deve saper leggere i segni dei tempi, affinché il messaggio evangelico sia accolto. Che cosa significa secondo Lei?

Forse questa espressione si può accogliere – includendo fra i segni dei tempi anche un meno pregiudiziale rapporto con le donne, come in fondo già suggeriva “Pacem in terris” – e anche però estendere: accogliendo i segni dei tempi è la chiesa stessa, per prima, che comprende meglio il Vangelo!

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