Nella foto: Mons. Giancarlo Perego.

Intervista a monsignor Gian Carlo Perego, neo presidente della Fondazione Migrantes e della Cemi

Lo scorso 26 maggio, monsignor Gian Carlo Perego, arcivescovo di Ferrara-Comacchio è stato eletto presidente della Commissione Cei per le Migrazioni (Cemi) e della Fondazione Migrantes. Nato a Vailate (Cremona) nel 1960, monsignor Perego è stato ordinato presbitero nel 1984. Già direttore generale della Fondazione Migrantes dal 2009 e consultore del Pontificio consiglio della pastorale per i migranti e gli itineranti dal 2012, la sua biografia testimonia un lungo impegno verso i migranti e i rifugiati. Lo abbiamo intervistato in occasione del suo nuovo incarico e della giornata internazionale Onu del rifugiato, il 20 giugno, giorno in cui fu firmata la Convenzione Onu sullo statuto dei rifugiati nel 1951.

Monsignor Perego, c’è un aneddoto, un incontro o un’esperienza di vita particolare, che l’ha portata a dedicarsi ai migranti?

Sul piano dello studio delle migrazioni, già da giovane prete avevo accostato la figura di Geremia Bonomelli, vescovo di Cremona e fondatore dell’Opera per gli emigranti in Europa e in Medio Oriente, e di padre Marcellino d’Agnadello, un francescano e poi prete diocesano che guidò il primo gruppo degli Scalabriniani negli Stati Uniti per un lavoro pastorale con i migranti. Il mio impegno diretto con i migranti nasce nel 1998 con lo scoppio della guerra in Kossovo. Allora ero da un anno, oltre che insegnante di Dogmatica, direttore della Caritas Diocesana, e accogliemmo in Diocesi circa 100 profughi e richiedenti asilo. Da qui è iniziato un cammino che poi mi ha visto impegnato anche sui richiedenti asilo del Ruanda. Arrivato in Caritas Italiana nel 2002 come responsabile dell’area nazionale il mio impegno sui temi dell’immigrazione ha visto anche un’interlocuzione con il governo, la nascita del PNA (Piano Nazionale Asilo), la preparazione del testo unico sull’immigrazione, il dibattito sulla legge Bossi-Fini. L’impegno specifico sulle migrazioni e sulla mobilità umana e anche sulla emigrazione italiana si è intensificato dal 2009 al 2017 come direttore generale della Fondazione Migrantes: anni di intensi cambiamenti nella mobilità nel mondo, ma anche nel nostro Paese, legato agli arrivi attraverso il Mediterraneo di persone in fuga e che chiedono asilo o protezione umanitaria e sussidiaria.

Come neo presidente della Cemi e della Migrantes ha assunto un incarico importante in un periodo molto delicato come quello post pandemia e della ripresa. Che cosa Le hanno fatto comprendere questi 18 mesi di pandemia? Quali sono le priorità?

La pandemia – come ha ricordato più volte papa Francesco – ha rivoluzionato la nostra vita: ha creato distanziamento sociale, povertà, paura, sofferenza e morte. Abbiamo perso il senso dell’onnipotenza e abbiamo compreso come l’economia non sia tutto, ma è importante investire nella scuola, nell’ospedale, nella tutela dell’ambiente… nei beni comuni. Forse dobbiamo ripartire da questi beni comuni per ricostruire una convivenza, valorizzando le relazioni, la tutela dei più deboli, la salvaguardia del creato. ‘Prossimità’ e ‘Responsabilità’ sono le parole d’ordine che guidano il prossimo cammino insieme che, anche con il Sinodo della Chiesa universale e delle Chiese locali, potrà trovare un luogo di comunione, partecipazione e missione.

Gli 82 milioni al mondo che chiedono asilo e rifugio ci parlano della dimensione epocale della migrazione. Abbiamo un’Europa che controlla massicciamente i confini, ma manca una collaborazione efficace sul piano europeo per una politica della migrazione. Quali sono i passi che vanno fatti a livello politico europeo, penso per esempio alla revisione della Convenzione di Dublino, ma anche a piani di soccorso, accordi con Libia o Turchia… E che ruolo ha la chiesa?

Il volto e le storie di richiedenti asilo che sbarcano in Europa attraverso il Mediterraneo segnalano un Continente africano allo stremo – guerre in atto, miseria, fame, sfruttamento, un Medio Oriente che continua ad essere una polveriera e che accoglie rifugiati e richiedenti asilo, solo in Libano e in Giordania sono oltre due milioni e mezzo. L’Europa, che è causa spesso di queste situazioni di instabilità, è stata incapace di programmare le conseguenze e a risposto di fatto con la chiusura dei confini o con un’accoglienza non strutturata. Nonostante un accordo di Dublino che prevedeva un “asilo europeo” le scelte sono avvenute ancora in maniera nazionalista: c’è chi ha rifiutato di accogliere gli emigranti, chi li ha respinti, chi ha selezionato l’accoglienza – gli 800.000 siriani in Germania chi ha improvvisato un sistema di accoglienza di fatto inesistente prima, l’Italia. L’operazione Mare nostrum era stato un primo tentativo di governare in maniera europea i soccorsi in mare oggi di fatto lasciati alle sole ONG. Necessaria è una riforma del Regolamento di Dublino per un coinvolgimento comune di tutti e 27 paesi europei nella tutela del diritto d’asilo e per un sistema di soccorso in mare e di accoglienza con parametri condivisi e che favorisca anche – per usare le parole di papa Francesco – “accoglienza, tutela, promozione e integrazione”. Gli accordi con la Turchia e soprattutto con la Libia sono diventati di fatto ‘il muro’ dell’Europa per difendersi dai migranti. Affidando l’accoglienza di richiedenti asilo a due paesi che non hanno sottoscritto la tutela d’asilo, contraddicono un principio fondamentale – la tutela del diritto d’asilo – su cui poggia l’Europa. La Chiesa in Europa ha un ruolo profetico di richiamare un modello nuovo di accoglienza e di tutela del diritto d’asilo, facendo diventare anche le proprie chiese – e in questo la Germania sta dando una lezione – e parrocchie, come un tempo, luogo per l’accoglienza e la tutela dei rifugiati. L’appello del Papa in questo senso, ha generato storie nuove di accoglienza ecclesiale in Italia e in Europa, un segno per passare dalla cultura dello scarto e del rifiuto alla cultura dell’incontro.

L’enciclica Fratelli tutti vuole farci comprendere che la fratellanza è la via per la convivenza fra le genti. Dappertutto invece crescono i movimenti sovranisti, identitari, una cultura della chiusura anche fra chi si proclama cristiano. Cosa siamo chiamati a fare noi cristiani? Che cosa intende, monsignor Perego, quando dice che “serve uno scatto di umanità”?

Anche i cristiani rischiano di omologarsi alla cultura dell’accoglienza conveniente e accodarsi all’esercito di coloro che vedono nella chiusura la difesa di identità e benessere. L’enciclica Fratelli tutti ci propone “una serie di sfide che ci smuovono, ci obbligano ad assumere nuove prospettive e a sviluppare nuove risposte”, afferma il Papa. “Quando il prossimo è una persona migrante – aggiunge il Papa – si aggiungono sfide complesse” (F.T. 128-129). Le sfide sono l’accoglienza, il dialogo interculturale e il dialogo religioso, una cittadinanza globale, un modello di sviluppo integrale che dalla enciclica Populorum progressio di Paolo VI alla Fratelli tutti di Papa Francesco segnano la strada dell’impegno sociale, economico e internazionale dei cristiani: in questo senso serve uno scatto di umanità. La carità politica, poi, viene vista da papa Francesco come un luogo importante di impegno, come già indicava la costituzione conciliare Gaudium et spes.

La Germania è terra di immigrazione anche dall’Italia, un fenomeno che è cresciuto negli ultimi dieci anni. Quali sono per Lei i punti centrali di una pastorale per i migranti, soprattutto in questo periodo di ripresa del post pandemia?

L’Italia sta tornando ad essere in questo tempo di post-pandemia terra di emigrazione più che di immigrazione. In questo senso, camminare insieme con gli emigranti diventa per noi una sfida importante, ma soprattutto considerare chiesa i migranti. Per questo credo che un primo impegno sia il riconoscimento della esperienza di fede di chi emigra una risorsa importante per le Chiese in arrivo, trasformando le nostre missioni come luogo di prima accoglienza, propedeutico per favorire poi un’accoglienza piena nella Chiesa dove arrivano. Un secondo aspetto importante è togliere la connotazione di una Chiesa ‘nazionale’: la Chiesa è una e cattolica e ogni nostra esperienza e struttura ecclesiale non deve smentire queste due note fondamentali della Chiesa che insegniamo anche a catechismo. Un terzo ambito in questo impegno ecclesiale in conseguenza della pandemia è la condivisione. La pandemia ha creato nuovi poveri, nuovi cammini in Europa di lavoratori, nuove situazioni di precarietà: un altro impegno per le nostre missioni unitamente alle Chiese d’arrivo è coniugare evangelizzazione e promozione umana. Un ultimo impegno credo sia quello di valorizzare una ministerialità di laici, uomini e donne in cammino, come risorsa generativa nelle Chiese d’arrivo.

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