La lingua italiana conta sempre meno a livello internazionale. Non è un’opinione tra le tante, bensì un’amara constatazione. E non è neppure una novità degli ultimi giorni, visto che la perdita di importanza e prestigio è una tendenza che dura da anni. Certo, l’idioma di Dante continua ad essere studiato in tante università e scuole all’estero: del resto chi ama l’arte, la musica, la letteratura non può prescindere dall’italiano.
Ci sono istituzioni benemerite come la Società Dante Alighieri e i vari Istituti italiani di cultura che conducono una tenace battaglia, spesso e volentieri senza finanziamenti o con finanziamenti del tutto inadeguati, per far conoscere e diffondere l’italiano nel mondo.
Quello che preoccupa è il sempre più scarso peso che gli si attribuisce a livello politico-diplomatico nelle istituzioni internazionali. E soprattutto preoccupa la scarsa attenzione che organismi come il governo e il parlamento rivolgono al problema: come se la perdita d’importanza della lingua italiana non significasse perdita d’importanza dell’intero sistema- Paese. Uno smacco intollerabile per una nazione come la nostra che secondo le stime dell’Unesco vanta il più alto tasso di beni culturali.
La crisi è iniziata da qualche anno. Finché l’Europa era un piccolo club di 7 o 12 membri, l’italiano era importante e irrinunciabile al pari delle lingue di altri Paesi fondatori. Era lingua ufficiale a Strasburgo come a Bruxelles, in tutte le istituzioni comunitarie. Ma con l’allargamento fino a 27 membri (con 22 lingue ufficialmente riconosciute) gli equilibri sono completamente cambiati, con inevitabili ripercussioni anche sul piano linguistico. La lingua italiana è stata progressivamente marginalizzata dimostrandosi un vaso di coccio tra tre o quattro vasi di ferro. Via via si è imposta una semplificazione fondata sul criterio del trilinguismo: tre sole lingue (inglese, francese, tedesco) per documenti e decreti ufficiali.
L’ultimo episodio di questa vicenda è stata la battaglia combattuta nei mesi scorsi attorno al cosiddetto “brevetto europeo”. La Commissione europea ha varato un piano secondo il quale chi vorrà far registrare un prodotto dovrà farlo per forza in una delle tre lingue prescelte con l’esclusione definitiva di altre quali, appunto, l’italiano. Ora, nessuno dubita che una semplificazione sia indispensabile. Ma la restrizione a tre sole lingue suona come una forzatura e una bocciatura inaccettabile.
D’accordo sull’inglese, ormai da tutti riconosciuta lingua franca della comunicazione internazionale specie in campo scientifico ed economico. E d’accordo anche per il francese, oggi meno importante che in passato, ma pur sempre legato alla realtà della diplomazia (in fondo a Strasburgo e Bruxelles, “capitali” dell’Unione europea, si parla francese). Ma perché il tedesco? Perché “solo” il tedesco come terza lingua e non “anche” l’italiano e lo spagnolo?
Certo, la Germania riunita è il Paese più popoloso dell’Ue, oltre ad esserne la forza economica trainante. Ma lo spagnolo gode di una diffusione nel mondo ben superiore al tedesco e meriterebbe un altro trattamento. E l’italiano è la lingua di uno dei Paesi fondatori dell’Unione, ed occupa la seconda posizione per quanto concerne il numero di madrelingua comunitari (13%).
Una restrizione a cinque lingue (le tre prescelte più italiano e spagnolo) sarebbe una soluzione che eviterebbe ingiustizie e umiliazioni. Ma non appena Italia e Spagna hanno deciso di porre il veto sul trilinguismo, la Germania si è mossa con grande determinazione raccogliendo l’appoggio di molti altri Paesi così da far scattare il meccanismo della “cooperazione rafforzata”, una procedura introdotta dal Trattato di Lisbona e finalizzata a limitare gli effetti del diritto di veto. La questione non è ancora definitivamente conclusa, ma come si sarà capito sono soprattutto i tedeschi i più accaniti nel volere escludere italiano e spagnolo dalla stanza dei bottoni dell’Europa unita.
L’adozione del trilinguismo nella disciplina dei brevetti avrebbe per altro conseguenze sconcertanti. Da un lato sancirebbe l’esistenza di una discriminazione tra lingue di serie A e lingua di serie B (con l’italiano relegato in una posizione subordinata, al pari di portoghese o bulgaro). Dall’altro darebbe un vantaggio competitivo indebito alle aziende tedesche, francesi e britanniche a scapito di quelle, come le italiane, che dovrebbero chiedere ogni volta una traduzione in una lingua diversa dalla propria.