“Occorre puntare sui giovani”. Questa frase l’abbiamo sentita un milione di volte e sotto questa insistenza non può che esserci una ragione sacrosanta. La ragione è che senza i giovani, senza quella classe che lavora e produce Pil, un sistema è costretto a sobbarcarsi da solo il peso dell’assistenza di chi ha ormai smesso di produrre. E, soprattutto, non cresce più, retrocede e alla fine collassa su se stesso.
Ma quali sono le ragioni che spingono uno Stato ad intraprendere la folle via di far scontare ai giovani il peso della crisi, pur sapendo che è in questi che si trova la soluzione per superarla? Come si spiega la paradossale situazione che vede un giovane italiano avere più difficoltà di un adulto a trovare lavoro e senza poter godere di sufficienti ammortizzatori sociali? Perché, più in generale, in Italia non si riescono ad individuare giuste politiche in tal senso? Perché la lungimiranza, si sa, non è notoriamente una qualità della nostra classe dirigente; perché questa classe dirigente è fatta per lo più da anziani; perché, a causa di un sistema nepotista di accesso al lavoro, i loro figli e nipoti non hanno gli stessi problemi di tutti gli altri; e perché, grazie a tutto questo, in Italia i giovani hanno perso le speranze e sono rimasti davvero in pochi. Ed essere pochi in un Paese significa avere anche meno peso politico.
La nostra percentuale di giovani under 25 è oggi la più bassa d’Europa. Siamo a quota 25%, stranieri inclusi, a fronte di una sostanziale parità con gli altri Paesi nel resto delle fasce d’età. In termini rappresentativi, dice Manageritalia, “nel 2020 conterà di più chi avrà oltre mezzo secolo di vita alle spalle che le forze più giovani e dinamiche della società”. In Italia, infatti, ciò che è fuori dalla norma non è tanto il numero di giovani che vanno via, in linea con la media, ma il numero di quelli che entrano. Il nostro rapporto tra flussi in entrata e in uscita di persone con istruzione terziaria, diceva l’Ocse nel 2005, è pari a – 1,2%, contro il 2,8 di Francia, il 2,2% di Germania, l’1,1% di Gran Bretagna e il 20% di Stati Uniti.
Insomma, come si dice tecnicamente in questi casi, l’Italia ha una capacità attrattiva decisamente deludente. Per questo Gaia, oggi ventisettenne, ci racconta di aver deciso a 18 anni di andare a fare l’università a Londra. All’età di 25, con solo una laurea triennale – che qui per ragioni poco note non ha lo stesso valore – era già diventata direttore della comunicazione di un importante centro culturale londinese. Reclutava il suo staff e guadagnava dignitosamente, al punto da potersi permettere l’anno scorso l’acquisto di un appartamento.
Se fosse rimasta qui, Gaia, per raggiungere tutto questo, avrebbe dovuto aspettare di compiere almeno 50 anni. Nel 2005, l’età media della nostra classe dirigente era di 62 anni contro i 51 del ‘90, nonostante la speranza di vita in quegli 11 anni trascorsi sia aumentata di soli 4. Oggi, alla Camera dei deputati sono solo 6 su 630 quelli con meno di 30 anni e solo 65 quelli con meno di 40, meno del 10%. Prima di questa età, al Senato, in cui si votano le leggi, non si può neanche venire eletti. Peccato, però, che gli under 40 in Italia sono il 46%, con un conseguente lampante difetto di rappresentazione. Non va meglio tra i docenti: gli over 60 erano nel 2006-2007 il 24%, contro l’8% del Regno Unito; mentre gli under 40 erano l’11%, contro il 30% del Regno Unito.
In quanto a dirigenti pubblici e privati, invece, l’età scende a 47,7 anni, contro una media Ue a 15 di 44,7. Visto che non si diventa gerenti senza prima essere stati giovani, la questione fondamentale è: cosa succede in quell’arco di tempo che precede il raggiungimento di quelle cariche? È noto ormai che per raggiungere questi traguardi in Italia occorre passare per gavette interminabili, stipendi da fame, contratti a progetto, mille stage e soprattutto tanti compromessi. Chi può permettersi di intraprendere questo percorso è dunque solo chi è dotato di una rara resistenza, chi ha alle spalle una famiglia in grado di aiutarlo e chi, ovviamente, ha parentele e raccomandazioni in grado di accorciargli di molto la gavetta. Solo dopo questa prima scrematura, è casomai possibile parlare di meritocrazia come criterio selettivo.
Perché un sistema vada bene, però, è necessario che chi viene assunto sappia fare il suo lavoro meglio di colui che è stato escluso. Un rovesciamento in senso meritocratico potrebbe quindi essere la vera svolta dell’Italia, in grado di ridare non solo buon umore alle fasce giovanili, ma anche competitività al Paese in generale. Oggi, in Italia, a pensare al giovane è invece soprattutto la famiglia, che funge da ammortizzatore sociale lì dove lo Stato non arriva. “La nostra spesa sociale, infatti, – dice Manageritalia – continua a essere fortemente sbilanciata verso le pensioni (15,5% del Pil contro una media EU 15 dell’12,1% al 2006) e in generale verso i rischi della vecchiaia. Viceversa, bassa è la quota destinata al sostegno al reddito nei casi di disoccupazione (0,5% Pil contro una media EU 15 dell’1,5%) e alla formazione e il reinserimento nel mercato del lavoro”. Senza modifiche al sistema pensionistico, poi, questi stessi giovani, adesso alle prese con precariato e disoccupazione, conseguenti vuoti contributivi e scarsi stipendi, si ritroveranno in futuro a fare i conti con pensioni lontane e molto più basse di quelle degli anziani di oggi.
Cosa pensano di tutto questo i diretti interessati? In parte l’abbiamo visto; in gran parte, no. È ormai sviluppata nell’italiano, infatti, una resistenza e una silente rassegnazione che inganna spesso l’osservatore esterno, convinto che “le cose in Italia vadano bene, perché se andassero come si legge in giro sarebbe già scoppiata una rivoluzione”. Ed invece, l’italiano di problemi ne ha tanti, di più di molti altri, ma l’abitudine alle cose che non funzionano l’ha portato a farsene una ragione e a viver “bene” anche col meno che si ritrova.