Banda larga e rete veloce per tutti? Se ne parla concretamente in Europa, dove questa ha raggiunto in Danimarca e Svezia il primato di accesso dell’83%, seguito dall’80 e 76% di Germania e Finlandia. In Italia, invece, il 12% della popolazione non ha ancora accesso all’Adsl ed in alcune zone questa è ancora da 640 kb/s.
È il cosiddetto “digital divide”, quel divario di accesso alle tecnologie dell’informazione che non esiste solo tra Italia ed Europa, ma anche tra zona e zona del Paese. Ma partiamo dall’inizio. Per banda larga si intende genericamente una grande portabilità, ovvero una grande quantità di dati trasmissibili. Siccome più la portabilità è vasta, più la velocità aumenta, il termine banda va alla fine ad identificarsi con la velocità di connessione e tutta un’altra serie di vantaggi che ne conseguono.
Gli effetti si vedono nel concreto, quando ad esempio notiamo che la velocità diminuisce in certe ore della giornata. Questo succede perché a connettersi sono più persone contemporaneamente e questa maggiore quantità di dati trasmessi deve passare per il medesimo spazio. Questo spazio è ovviamente il cavo di trasmissione, i cui progressi tecnologici in questi anni sono stati determinanti, al punto che ciò che era considerato banda larga in passato non può esserlo altrettanto oggi. Negli anni ’90, infatti, bastava parlare di Adsl, oggi invece c’è la fibra ottica. Ai tempi, la grande novità stava nello sdoppiamento dei canali di trasmissione, cioè quello della voce e quello dei dati, che iniziarono a viaggiare sottoforma di segnali digitali, decisamente più piccoli rispetto ai vecchi analogici decodificati dal modem 56k.
Oggi, con la fibra ottica, i dati viaggiano invece sottoforma di impulsi luminosi, molto più piccoli. La rete italiana, invece, è ancora in gran parte costituta da cavi di rame, gli stessi di oltre 40 anni fa, meno capienti, più soggetti a guasti e dunque più costosi. Inoltre, la rete presenta anche buchi e danni strutturali che influiscono ulteriormente sull’efficienza. Nonostante questo ritardo, però, il treno non è ancora perso e proprio l’ammodernamento di questa rete infrastrutturale ci permetterebbe non solo di recuperare questo gap, ma di fare anche molto altro. Il problema è che, al momento, sembra che nessuno voglia accollarsi tale onere. Eppure l’impegno sarebbe prioritario, visto che la banda larga è ormai da tutti considerata uno strumento fondamentale di democrazia e di sviluppo e competitività del Paese, oltre che garanzia di tariffe più basse e maggiore sicurezza per gli utenti.
Per questo l’Europa l’ha già da tempo eletta “servizio universale”: un concetto che in Italia si è tradotto in una così sterile e generica definizione da permetterci un affrancamento da obblighi precisi. L’ultima normativa in materia risale al 2003: è il codice delle comunicazioni elettroniche, in cui il concetto di “servizio universale” si stacca da quello di banda larga in senso stretto e si limita ad “un insieme minimo di servizi di una qualità determinata, accessibili a tutti gli utenti a prescindere dalla loro ubicazione geografica e, tenuto conto delle condizioni nazionali specifiche, offerti ad un prezzo accessibile”.
Ma qual è questa “qualità determinata”? Stefano Caio, autore di quell’omonimo rapporto ora in mano al governo e pubblicato sul sito di Wikileaks, fissa al riguardo una sorta di minimo sindacale, 2 mb/s per tutti, sottolineando però nuovamente la necessità di passare per un ammodernamento, anche parziale, della rete. Ecco che si viene al nocciolo. Il codice delle comunicazioni è chiaro al riguardo: “Ѐ Telecom Italia Spa l’impresa ad oggi designata alla fornitura del Servizio Universale”. Il problema è, però, che i conti della società sono in rosso e il sistema sta ancora scontando con una serie di errori compiuti nel passato. Uno di questi si deve al noto personaggio Tronchetti Provera, che anni addietro acquistò la già indebitata azienda facendo ricorso ad un prestito bancario, e non utilizzando propri capitali.
La Telecom si trovò così con un doppio debito, il vecchio e quello ereditato con il nuovo acquisto. Debito che i cittadini italiani stanno ancora ripagando con canoni e tariffe più alti d’Europa in termini di telefonia fissa, mobile e adsl. Un altro errore è stato invece compiuto al momento della privatizzazione della società, prima pubblica sotto il nome di Sip, quando anziché suddividerla in due differenti aziende, una che avrebbe gestito la rete e l’altra i servizi, si è deciso di accorpare il tutto. E in tutto questo, i vari governi sono rimasti a guardare. Agli inizi del 2010, il Ministro Brunetta aveva promesso banda larga per tutti addirittura entro la fine dell’anno, garantendo l’impegno finanziario lì dove gli interessi privati non sarebbero arrivati. Successivamente, convergendo con le raccomandazioni di Caio, nasceva il cosiddetto Piano Romani, un ambizioso progetto di "copertura prevalentemente in fibra” con il quale si garantiva “entro il 2012 una connettività dai 2 ai 20 mb/s al 95,6 per cento degli italiani”. Per realizzarlo, il governo ci avrebbe messo 800 milioni di euro.
Ebbene, di tutto ciò non si è vista neanche l’ombra. Ancora una volta per colpa della crisi. Eppure altri Paesi, che la crisi l’hanno vissuta quanto noi, hanno comunque garantito passi avanti in materia. Colpa di “quella tipica mentalità all’italiana che non vuole che le cose cambino”, ci dice Fabio Spagnuolo dell’“Anti digital divide”, associazione da anni impegnata nella causa. L’effetto è un’immobilità sostanziale, che nel campo della banda larga si serve del cosiddetto “digital divide culturale”, vale a dire quell’ignoranza diffusa tra gli italiani, la cui gran parte sconosce ancora i vantaggi che tale tecnologia potrebbe arrecargli in termini di qualità della vita e di sviluppo del Paese.
Una buona carta da giocare questa per la politica, che in Italia risulta particolarmente coinvolta da interessi nel settore. Lo sviluppo della banda larga determinerebbe infatti un’esplosione delle web tv, con l’effetto di mettere in crisi le tradizionali emittenti televisive italiane, oggi già alle prese con un singolare ostruzionismo anche nel campo dell’assegnazione delle frequenze televisive digitali.