„L’Unione Europea è in crisi“. Potrebbe essere questo il titolo di un quotidiano qualunque di un paese qualsiasi. Si tratta, senz’altro, di uno dei titoli più gettonati degli ultimi anni. I mass media, l’opinione pubblica e buona parte dei politici di ogni colore sembrano, infatti, aver trovato un minimo comun denominatore nel definire i limiti e i difetti dell’Ue: il tracollo della Grecia, la crisi delle banche europee e della moneta unica, la famigerata ondata di profughi che mette in tilt il trattato di Schengen e adesso la fuoriuscita della Gran Bretagna dall’Ue, il cosiddetto Brexit. Questi sono solo alcuni dei tanti macigni che le istituzioni europee si ritrovano lungo la via che dovrebbe portare ad una maggiore integrazione degli stati membri e che molti strumentalizzano per dichiarare la fine di uno dei progetti politici più straordinari della Storia.
L’Europa come soluzione
Se iniziassimo, tuttavia, ad analizzare punto per punto le crisi degli ultimi anni, ci accorgeremmo che la maggior parte dei problemi non hanno la loro origine nelle istituzioni europee, ma esistono nonostante l’Unione Europea (Ue) e le sue istituzioni. In altre parole: l’Ue non è parte del problema, ma – come diceva Umberto Eco – “l’unica soluzione”. Se poi cominciassimo a decostruire i discorsi della classe politica dei singoli stati membri, potremmo evincerne un principio assurdo valido per tutti: quando le cose vanno bene, è merito dei governi nazionali, quando le cose vanno male, è colpa dell’Europa. “Ce lo impone l’Unione Europea!” è, sicuramente, un’altra affermazione da slogan pubblicitario delle classi politiche europee.
Ma le cose stanno veramente così? L’Ue è un male per i cittadini degli stati membri? Come funzionano veramente le istituzioni europee? E quanto influisce l’Unione Europea sulla nostra vita quotidiana? O meglio: cos’è l’Ue?
Di tutto questo cercherò di scrivere nei prossimi numeri del Corriere d’Italia, entrando in merito ad alcune delle questioni più calde degli scorsi anni.
Prima d’iniziare, però, bisogna fare una premessa: di Europa si parla poco, anzi troppo poco. Se consideriamo che, oramai, oltre due terzi delle nuove norme che ci riguardano provengono direttamente o indirettamente dall’Ue e che nei telegiornali, nei quotidiani e nei settimanali meno del 10 per cento degli articoli parla di Europa, qualcosa non quadra. Adesso alcuni diranno che si parla poco di Europa perché l’Ue non interessa. Ma, forse, è vero proprio il contrario: l’Europa non suscita interesse perché se ne parla troppo poco.
Gli inizi dell’integrazione europea
Cominciando dalla Storia – quella con la “S” maiuscola –, ritengo opportuno partire dal discorso considerato “storico” di Winston Churchill, l’ex premier britannico, che con molto pathos presso l’università di Zurigo settant’anni fa, il 19 settembre del 1946, si rivolse agli studenti dell’ateneo con queste parole: “Dobbiamo ricostruire la famiglia dei popoli europei in una struttura regionale che potremmo chiamare Stati Uniti d’Europa, e il primo passo pratico consisterà nella creazione di un Consiglio d’Europa. Se, all’inizio, non tutti gli Stati d’Europa vorranno o saranno in grado di partecipare all’unione, dobbiamo ciò nonostante andare avanti e congiungere e unire gli Stati che vogliono e che possono”. Churchill, che sosteneva l’idea di un’Europa paneuropea – concetto portato avanti soprattutto dall’austriaco Coudenhoven-Kalergi – non solo disegna la visione di una federazione degli Stati Europei, ma ne detta praticamente la prima regola di sussistenza: “Vi dirò ora qualcosa che vi sorprenderà. II primo passo verso la ricostruzione della famiglia europea dev’essere un’alleanza fra la Francia e la Germania. […] Non vi può essere rinascita dell’Europa senza una Francia spiritualmente grande e senza una Germania spiritualmente grande”, affermava Churchill. E se per uno strano scherzo della Storia fu proprio un politico britannico a formulare in nuce il progetto di un’Unione Europea, non fu un caso se proprio il rapporto tra Bonn e Parigi contribuì a far germogliare e, in seguito, intensificare l’integrazione europea. Altrettanto non casuale fu il piano di Jean Monnet, uno dei padri fondatori dell’Ue, che prevedeva una stretta collaborazione proprio tra Francia e Germania: Monnet, un abile imprenditore, ebbe un’intuizione, che presto si rivelò azzeccata. Per evitare un nuovo sanguinario conflitto tra francesi e tedeschi bisognava istituire un meccanismo di controllo reciproco relativo alla produzione e alla lavorazione di carbone e acciaio, due materie indispensabili per costruire armi. Fu un’idea che piacque al ministro degli esteri francese Schumann e al governo tedesco di Adenauer. Un’idea che in pochi anni portò alla prima fase dell’integrazione europea, alla Comunità Europea del carbone e dell’acciaio (CECA). Lo straordinario successo della politica funzionale di Monnet non deve, però, offuscare i tanti altri volti che contribuirono alla realizzazione del progetto politico di un’Europa unita: con il manifesto di Ventotene fu proprio l’italiano e antifascista Altiero Spinelli a sognare durante il suo periodo di confino, una federazione degli stati d’Europa. E mentre Spinelli considerava “la fine delle autarchie” una condizione indispensabile per il raggiungimento della pace, per l’olandese Sicco Mansholt solo una politica agraria comune poteva porre fine al perenne rischio di carestia in Europa.
Quel che accomuna Churchill e gli altri padri fondatori fu, comunque, il sogno di un continente senza guerre. E se oggi, a distanza di oltre settant’anni, riteniamo la pace una condizione costante e ovvia della nostra società, lo dobbiamo anche a chi ha speso ogni minuto della sua vita per realizzarla. [continua nel prossimo numero].
(Il Dr. Bellardita è magistrato e docente di diritto)