Klaus Bade (foto) è forse uno dei grandi vecchi della sociologia tedesca ed europea, in particolare per quello che riguarda la sociologia delle migrazioni. Di Bade, questo giornale si è occupato spesso, perché con le sue tesi egli propone letture dei fatti sociali straordinariamente lucide. In un suo discorso, tenuto ultimamente a Bonn per il 50.mo anniversario della Fondazione Otto Benecke, egli ha esposto 10 tesi fortemente critiche per un ripensamento anche politico della Willkommenskultur (cultura dell’accoglienza). La quale, secondo Bade, è un processo sociale e politico ancora senza un preciso orientamento e bisognoso di correzioni. Il primo punto che Bade, tocca riguarda il fatto che la Willkommenskultur è un processo “up down”, cioè calato dall’alto per ragioni economiche: voluto da una elite politica e propagandato dai media.
Questo provoca semplicemente la reazione contraria “botton up” della normale popolazione; una reazione, questa, che la Willkommenskultur riesce, sì, a circoscrivere ma non a risolvere. Se si osservano in Germania movimenti dichiaratamente contrari (o paralleli) alla Willkommenskultur, e anche molto seguiti, come ad esempio Pegida, o se guardiamo al successo popolare di libri fortemente critici sull’Islam, come quello di Sarrazin, capiamo subito cosa Bade vuole intendere. Non solo: sul piano europeo crescono velocemente nell’opinione pubblica le ideologie propagate dal lepenismo nelle sue varie sfaccettature nazionali. Sia Pegida che il lepenismo sono movimenti chiaramente “botton up”, cioè dal basso verso l’alto. Bade sottolinea che la Willkommenskultur è un concetto pensato per una immigrazione economica utile ai bisogni del mercato del lavoro e della produzione, e viene apertamente utilizzata unicamente per l’integrazione della immigrazione economica, in particolare (ma non solo) della nuova immigrazione qualificata. La Willkommenskultur però non va oltre, se si escludono iniziative locali o comunali, che cercano di allargare l’idea attraverso progetti specifici.
La Willkommenskultur seleziona implicitamente l’immigrazione tra quella desiderata e quella non desiderata.Tra quest’ultima figura anche l’immigrazione povera dall’Europa del sud, che in sé non dovrebbe suscitare più resistenze di tipo ideologico o religioso. La messa in scena politica della Willkommenskultur non ha discriminanti geografiche, insomma, ma semplicemente discriminanti economiche. È molto meglio un ingegnere indiano o pachistano che un povero nullafacente italiano o spagnolo. Ora, di fronte ad una ondata di profughi da zone di guerra o di fame, che cercano protezione in Europa, la Willkommenskultur è però impotente, soprattutto se si pensa che tale ondata è in crescita e rischia di diventare un vero e proprio maremoto nel prossimo futuro. Ma, soprattutto, è proprio questo il problema centrale dell’immigrazione, dal punto di vista sociale e politico; un problema che diventerà senza dubbio sempre più grave man mano che le questioni politiche in Medio Oriente si incancreniscono invece di risolversi. Anzi, sottolinea di nuovo Bade, la Wilkommenskultur rischia di aggravare il problema proprio nel momento in cui crea la divisione tra immigrazione benvoluta e immigrazione malvoluta.
Ma c’è un altro problema che Bade denuncia nella sua relazione. La Willkommenkultur crea spaccature anche con il mondo della vecchia emigrazione di lavoratori che crearono all’epoca le condizioni per il miracolo economico tedesco, ma che non furono affatto benvenuti. I Gastarbeiter di allora, che si guadagnarono il loro rispetto sociale con le lacrime e con il sangue, ora, dalla finestra della loro casetta faticosamente guadagnata a suon di mutui, perché allora non si affittava ad italiani, turchi o portoghesi, improvvisamente vedono che c’è una Willkommenskultur, ma nei confronti degli altri. Anche costoro si sentono degli svantaggiati sociali.
Tipico poi della Willkommenskultur è il fatto che si tenti di aumentare l’accettanza sociale con parole e con slogan. Che però non bastano a creare un quadro di insieme inclusivo. Se l’Ausländer diventa il Gastarbeiter, e se il Gastarbeiter si trasforma a sua volta nell’ausländische Mitbürger; e se poi quest’ultimo festeggia non nella Ausändische Woche, bensì nella l’Interkulturelle Woche, ciò non trasforma di molto un quadro emarginante. I comportamenti sociali sono molto più lenti delle parole. Insomma, nonostante una crescente accettanza per gli immigrati e per la multiculturalità, manca ancora, nell’immaginario collettivo, un quadro inclusivo che è fatto di ricordi comuni, di una crescita comune e di una comune visione del futuro tra popolazione locale e immigrata. La Willkommenskultur come concetto di elite up down non è sufficiente a completare il quadro dell’accettanza. Qui si entra allora nel quadro delle proposte che non sarebbero tuttavia compito della sociologia ma della politica. Klaus Bade fa una sua riflessione e gli vengono in mente le idee del filosofo francese Vincent Cespedes.
Si tratta insomma di creare una “narratio” popolare comune, il che vuol dire, appunto, un comune passato e comuni prospettive per il futuro. In altre parole, è necessario recuperare la capacità di creare quadri comuni in un “noi” collettivo, pur in una società in cambiamento. Lo stesso “noi” che Cespedes chiama il Grande Palaver: quello che fornisce la pozione magica che rende tutti fratelli. In questo senso servono delle linee di orientamento che la politica attualmente non ha. Bade propone quindi una conferenza di indirizzo a livello federale. Si tratterebbe di una conferenza comune con i gruppi etnici che vivono in Germania. Se questo sia sufficiente per evocare il Grande Palaver, difficile da dire.