Cosa significa aver perduto un genitore perché ammazzato dai terroristi? Cosa vuole dire essere bambini di pochi anni e vedersi il padre freddato da un colpo di pistola sparato da un qualche esaltato che pensava con quell’omicidio di compiere chissà quale grande atto rivoluzionario? Deve essere un’esperienza di sofferenza indicibile, di quelle che ti feriscono e ti segnano per sempre.
Non c’è nessun dubbio: bisogna essere solidali con i figli delle vittime del terrorismo, di quel terrorismo assassino e stragista che dalla strage di Piazza Fontana (1969) a quella della stazione di Bologna (1980) passando per centinaia di attentati, gambizzazioni, rapimenti, ferimenti e omicidi, ha insanguinato il nostro Paese per tutti gli anni Settanta e oltre. La premessa andava fatta per evitare ogni sorta di equivoco o fraintendimento. Però bisogna aggiungere un’altra considerazione.
Da qualche tempo accanto alla doverosa solidarietà per gli orfani delle vittime si va facendo strada negli alambicchi della mente una domanda parallela, forse politicamente poco corretta, ma pure non facile da eludere. La domanda è questa: fino a che punto lo status di orfano di vittima del terrorismo autorizza a costruire su di esso notorietà e carriera? Prendiamo il caso di Benedetta Tobagi: aveva tre anni quando il 28 maggio 1980 un gruppo di terroristi di estrema sinistra ammazzò suo padre, Walter Tobagi, giornalista del “Corriere della Sera”.
Adesso Benedetta ha pubblicato un libro intitolato “Come mi batte forte il cuore. Storia di mio padre”, pubblicato dalla casa editrice Einaudi. È una bella testimonianza passionale, un omaggio alla memoria paterna, forse anche un contributo storiografico per ricostruire la stagione degli Anni di piombo. Ma perché ora la Tobagi ha deciso di darsi alla politica candidandosi nelle liste del Pd alla provincia di Milano? Non sarà che quella candidatura gli è stata offerta sulla scia della notorietà raggiunta in quanto orfana di Walter Tobagi, ammazzato dai terroristi?
Ovvero, ribaltando la questione: se Walter Tobagi il 28 maggio 1980 non fosse stato assassinato, la figlia avrebbe avuto tanta esposizione mediatica da avviarsi alla carriera politica? Un altro caso sintomatico è quello di Mario Calabresi, altro quarantenne d’assalto, ottimo giornalista, già inviato di “Repubblica” negli USA. Alcuni mesi fa, a soli 39 anni, è diventato direttore del quotidiano torinese “La Stampa”, una nomina più che sorprendente in rapporto alla giovane età. Non si vogliono mettere in dubbio i meriti e le capacità di Mario Calabresi.
Ma anche in questo caso ci pare legittima la domanda: avrebbe fatto quella rapida carriera, sarebbe diventato direttore della “Stampa”, se non fosse il figlio del commissario Luigi Calabresi, assassinato il 17 maggio 1972 da un commando di militanti del gruppo Lotta continua? Per altro anche per Mario la notorietà mediatica ha coinciso con la pubblicazione nel 2007 di “Spingendo la notte più in là” (Mondadori), accorata ricostruzione dell’omicidio del padre. E si potrebbe continuare raccontando di Umberto Ambrosoli, figlio di quel Giorgio Ambrosoli, liquidatore della Banca privata di Michele Sindona, che fu ammazzato nel 1979.
Oggi Giorgio è avvocato penalista e anche lui ha pubblicato un volume (Qualunque cosa succeda, Sironi 2009) sulla vicenda paterna. O anche di Giovanni Bachelet, figlio del giurista Vittorio Bachelet che fu ammazzato dalle Brigate Rosse nel 1980, oggi deputato del Pd alla Camera. Benedetta Tobagi, Mario Calabresi, Umberto Ambrosoli, Giovanni Bachelet sono senza dubbio ottime persone, colte, stimate, educate. Alla loro sofferenza, al loro dramma personale e famigliare va tutta la comprensione e la solidarietà che si conviene. Ma resta l’amara sensazione che ancora una volta, anche nel caso drammatico di chi ha perso un padre per via di un attentato terroristico, si affermino le tipiche dinamiche del familismo italico. Gli orfani di vittime famose hanno fatto carriera nei rispettivi settori, hanno scritto libri di testimonianza, sono invitati ai talk show in televisione.
E i figli dei tanti poliziotti, dei tanti carabinieri delle tante guardie del corpo caduti vittime della stagione terroristica che fine hanno fatto? E cosa faranno oggi i figli, adesso cresciuti, dei cittadini qualunque che sono morti a Piazza Fontana, a Piazza Loggia, alla stazione di Bologna? Nessuno li conosce, nessuno ne parla, nessuno mostra interesse. Né i mass media né tantomeno lo Stato hanno mai pensato di occuparsi di loro.