Va da sé che si tratta di una definizione alquanto eufemistica in considerazione dell’insistenza e della durezza delle critiche che il governo di Berlino, la Bundesbank e gli istituti tedeschi di ricerca economica rivolgono ormai giornalmente alla politica del presidente della Bce, l’italiano Mario Draghi.
Il ministro tedesco delle Finanze Wolfgang Schaueble non si stanca di ripetere il punto di vista del suo governo, secondo cui politiche monetarie e di bilancio troppo espansive comportano il rischio di frenare le riforme strutturali che soprattutto nei Paesi dell’Europa meridionale attendono da anni di essere realizzate. La Germania, il Paese più importante dell’Unione Europea, per quanto la riguarda guarda con comprensibile orgoglio al 2015, anno in cui grazie alla disciplina voluta dalla cancelliera Angela Merkel il bilancio federale sarà chiuso in pareggio, un obiettivo che dagli anni Sessanta a oggi non era stato più realizzato.
Quando il ministro italiano dell’Economia Pier Carlo Padoan sostiene che nell’EU non esisterebbe il conflitto rigore-crescita, secondo i tedeschi egli direbbe soltanto una mezza verità. Perché a Berlino si è convinti che cedendo sul rigore i due grandi malati dell’UE, Italia e Francia, finirebbero inevitabilmente per rinviare ancora una volta alle calende greche le loro riforme. Una situazione senza via d’uscita, quindi? Non proprio.
Il possibile compromesso è quello che dovrebbe disegnarsi su proposta del nuovo commissario europeo agli Affari economici, l’ex-premier finlandese Jyrki Katainen, vale a dire un volume d’investimenti idonei a favorire la crescita commisurato sulla base della progressiva realizzazione delle riforme strutturali. È un compromesso che sostanzialmente fa sua la proposta del presidente della Bce Mario Draghi, il quale è convinto che soltanto una combinazione di politiche monetarie, di bilancio e strutturali può rilanciare la ripresa nell’area dell’euro.
In ogni modo, sempre secondo il ministro Wolfgang Schauble dovrà essere tenuto presente il punto di vista del governo tedesco, il quale teme il pericolo di una “socializzazione” dell’indebitamento nei Paesi dell’Europa meridionale. Un parere che non può essere ignorato soprattutto da quando la Corte Costituzionale federale di Francoforte ha sentenziato che l’acquisto illimitato di prestiti pubblici di singoli Paesi europei non è conciliabile con il mandato della Bce.
“La svalutazione dell’euro – afferma dal canto suo Otmar Issing, ex-capoeconomista della Bce, non può essere la soluzione della crisi economica dell’EU, come non lo è stata prima dell’entrata in vigore dell’unione monetaria per quei Paesi che hanno ripetutamente svalutato la loro moneta nei confronti del marco tedesco e che ogni volta hanno perso regolarmente molto presto il vantaggio così guadagnato”.
Così Otmar Issing interpreta la convinzione della stragrande maggioranza dei tedeschi, ma anche di chi, sia detto tra parentesi, come straniero vive da decenni in Germania. “Oltretutto i vantaggi di una moneta debole – afferma al riguardo l’istituto Max Planck – non sono regalati”. È vero che l’economia di esportazione ha un sostegno, ma è anche vero che ciò diminuisce il nostro potere d’acquisto: dobbiamo lavorare di più per comprare la stessa quantità di beni dall’estero. Vale a dire che come tutte le cose anche la svalutazione è una moneta con due facce.
Per gli economisti tedeschi, quindi, non può essere soltanto questa la soluzione dell’attuale crisi, perché rischia di sottrarre slancio e mezzi a riforme necessarie per la sollecita soluzione dei molti problemi strutturali che affliggono i Paesi europei, tra questi anche l’Italia. L’EU sta affrontando un momento molto critico del suo sviluppo. Ovunque i nazionalismi stando alzando la cresta e ovunque aumentano gli egoismi.
Anche la Germania non fa eccezione. Tanto che Otmar Issing, l’ex capo economista Bce è arrivato a dire di guardare con una certa serenità all’eventuale scioglimento della comunità monetaria europea. “Con la fine dell’euro la Germania perderebbe molti vantaggi ma di sicuro non morirebbe”. Un’affermazione che alla luce degli ultimi successi elettorali del partito anti-euro Afd (Alternativa per la Germania) ha tutta l’aria di un sinistro ammonimento.