Le Parole del Pontefice sono state percepite dal mondo politico e giuridico italiano come un messaggio “forte e chiaro”(Matteo Renzi, presidente del Consiglio, Twitter), come una “linea di separazione netta tra credenti e mafiosi” (Rosa Bindi, Presidente della Commissione parlamentare antimafia, Quotidiano della Calabria), come “una dichiarazione storica”. (Nicola Gratteri, procuratore aggiunto presso il tribunale di Reggio Calabria, Quotidiano della Calabria).
Per lo scrittore Marco Politi le parole di condanna del Papa rappresentano la richiesta diretta ai vescovi, al clero, agli ordini religiosi e ai fedeli praticanti di recidere ogni legame con la mentalità e il sistema mafioso: “(…) Papa Francesco – e intorno a lui i vescovi più avvertiti – sanno che esiste tutta una vasta zona grigia in cui prosperano i Don Abbondio o quelli che voltano la testa dall´altra parte. Un clero che sorvola su atteggiamenti mafiosi con il pretesto di non essere titolato a ergersi a giudice. Un mondo dove si chiedono favori o si accettano. Dove si chiudono gli occhi su sottili e quotidiane intimidazioni. Dove si confonde la cura pastorale delle anime smarrite con il silenzio complice. È su questi atteggiamenti che il Papa argentino intende incidere.” (Marco Politi, Una condanna che impegna la chiesa, Il Fatto Quotidinano, 22 Giugno 2014).
L´appello del Papa viene avvertito per molti come un deciso cambiamento di rotta rispetto al passato e come un forte impulso a cambiare mentalità e comportamenti. “Belle le parole del Papa, ma non sono rivolte a noi. Noi siamo bravi cristiani. Noi non siamo in Italia!”, potrebbe pensare qualche italiano residente in Germania. È vero, il Pontefice ha espresso la sua condanna alla mafia in Italia, ma non si deve dimenticare che la questione mafiosa si è globalizzata e che anche in Germania essa ha messo le sue radici. Non si vede, non si tocca, ma c´è! La scrittrice tedesca Petra Resky descrive in uno dei suoi libri (Von Kamen nach Corleone. Die Mafia in Deutschland, Knaur Taschenbuch 2012) come in questi ultimi 40 anni la mafia italiana sia diventato un fenomeno diffusosi anche sul territorio tedesco.
Se la situazione è questa, l´appello del Papa valica i confini dell´Italia rivolgendosi direttamente ai cristiani di tutto il mondo e quindi anche ai cristiani che vivono in Germania. Per comprendere in profondità la scomunica pronunciata dal Papa nei confronti dei mafiosi dobbiamo collegarla alle parole che seguono la scomunica: “Noi Cristiani non vogliamo adorare niente e nessuno in questo mondo se non Gesù Cristo, che è presente nella santa Eucarestia”.
Il Papa fa un ragionamento semplice e diretto ed individua subito il nocciolo del problema: adorare Gesù Cristo, camminare con lui significa dire di no a satana e a tutte le sue seduzioni, il denaro, la vanità, l´orgoglio, il desiderio di potere, la violenza. Invece chi non dice di no a Satana e alle sue seduzioni adora il male e ciò è segno di una profonda perversione della coscienza. I mafiosi hanno una coscienza perversa perché adorano il male e per questo sono scomunicati. Per il Papa la mafia è dunque originata da una perversione della coscienza e come tale è descritta già nel 1875, anche da Romualdo Bonfadini, deputato e senatore del regno d´Italia e presidente di una delle prime commissioni parlamentari che studiò il problema del Sud- Italia.
Egli infatti definì la mafia come “lo sviluppo e il perfezionamento della prepotenza diretta ad ogni scopo di male”. Premessa questa definizione, la mafia sarebbe da considerarsi fondamentalmente come una corruzione “organizzata” dell´agire dell´uomo, come una perversione della coscienza umana che smarrisce il senso del bene, del vero, e del bello trasformandosi in un fenomeno culturale mafioso. Per spiegare la mafia, la sociologia ha presentato vari modelli interpretativi, che a seconda delle premesse è stata definita come un fenomeno etnico, come una cultura, una subcultura o addirittura, per la sua capacità di diramarsi all´interno di tutti i sistemi socio-culturali, anche come trans-cultura, o come una cultura del potere, tuttavia, anche in questo contesto, al di là delle diverse definizioni, comune a tutte le interpretazioni sociologiche sembra essere la convinzione che il fenomeno culturale mafioso si caratterizzi come una perversione anzitutto individuale che poi si trasforma in una forza negativa, capace di sovvertire valori umani e sociali fondamentali generando una vera e propria anti-cultura che intenzionalmente riprogramma ogni azione, ogni relazione umana, in funzione di una affermazione del potere personale.
In tal modo la parola, i segni corporei (posizione del corpo, gesti delle braccia e delle mani, la mimica del volto e lo sguardo degli occhi), le relazioni umani in tutte le loro forme e a tutti i livelli, vengono intenzionalmente falsificate. Uno sguardo, un saluto, un complimento, un sorriso, la sola presenza fisica in un luogo, tutti elementi che oggettivamente appartengono alla normale vita di comunicazione di ogni giorno diventano veri e propri messaggi-minaccia per chi li riceve, se vengono fatte da individui, che incarnano l´anti-cultura mafiosa.
Questi messaggi-minaccia non si vedono, non si toccano, ma ci sono. Petra Resky così li descrive: “… Lui mi chiese, se io avessi mai ricevuto una minaccia scritta. Ho tentato di rispondere, e volevo dire, che una minaccia mafiosa può essere uno sguardo, un saluto, un complimento. Un veleno che ti viene instillato nel cuore e che non può essere provato” (da Von Kamen nach Corleone. Die Mafia in Deutschland, pag. 104).
La stessa scrittrice descrive in un altro suo libro (Mafia, Von Paten, Pizzerien und falschen Priestern, Knaur Taschenbuch, München 2009, pag. 148) come viene utilizzata la presenza fisica e un certo modo di guardare per esprimere un messaggio-minaccia ad esempio nei confronti di un prete che non vuole capire la volontà dei mafiosi: “Gli uomini d’onore partecipano alle messe di quei preti che non vogliono capire – cosa insolita di per sè dal momento che essi partecipano solo nelle solennità, poiché i boss non mostrano volentieri la loro religiosità pubblicamente – confessione e messe sono cose da donne.Tuttavia se non se ne poteva fare a meno, si sedevano in prima fila e fissavano il prete per tutto il tempo che fosse necessario, affinché il Prete capisse che deve fare richiesta di trasferimento in qualche missione estera. Se non voleva capire e se per caso incitava anche i giovani contro cosa nostra, allora sarebbe stato giustiziato con un colpo alla testa come Padre Puglisi a Palermo”.
Attraverso i messaggi-minaccia, difficili da provare e da intendersi come manifestazione di volontà di potere, la mafia non solo è in grado di controllare la vita e le scelte delle singole persone, ma addirittura anche le strutture sociali più complesse, evidenziando la sua fame di potere: “La mafia è organizzazione, impresa. Si tratta di un sistema superorganizzato che per sopravvivere e crescere ha necessità di interagire con il tessuto politico, amministrativo ed economico. Il tutto si realizza mediante uno scambio di servizi. La mafia mette a disposizione liquidità e voti elettorali, il sistema legale, sensibile a questa offerta, ricambia con le concessioni di licenza, con l’utilizzo di attività sulle quali investire ingenti capitali provenienti dai crimini, o favorendo strumenti che aiutano a realizzare quel processo attraverso il quale il denaro delle mafie sarebbe un ricavato inerte: il riciclaggio” (Stefano Pellegrini, Una mafia più che mai impresa, Il Mulino, 22 marzo 2012).
Per i suoi aspetti pseudoreligiosi la mafia si connota inoltre anche come “una religione capovolta, sacralità atea, scelta totalizzante, che pretende di trasformare e possedere l´individuo (…) e per questo essa si pone in contrasto con la fede cristiana” (Vincenzo Bertolone, Arcivescovo di Catanzaro-Squillace, Scomunica. Contro le mafie viviamo da credenti in: Avvenire, 12 Luglio 2014). La dimensione “totalizzante” della mafia è stata evidenziata anche da Falcone: (…) entrare a far parte della mafia equivale a convertirsi a una religione. Non si cessa mai di essere preti, né mafiosi”(Falcone G, Padovani M., Cose di cosa nostra, BUR Rizzoli, Milano 1991).
Pertanto il fenomeno mafioso è da considerarsi non soltanto come un’anti-cultura, ma dal punto di vista religioso anche come un fenomeno anti-cristiano. Don Aniello Tortora, parroco della Diocesi di Nola, così si esprime in proposito: “La mafiosità rappresenta, rispetto all’evangelizzazione, un vero e proprio contro-progetto, che persegue interessi e scopi programmatici diametralmente opposti a quelli della comunità ecclesiale e rappresenta perciò un oggettivo e formidabile impedimento per la salvezza integrale dell’uomo” (da Chiesa e Mafia, in: ilmediano.it, 12.03.2010).
Che di un vero e proprio progetto anti-cristiano si tratti è dimostrato anche dall’uccisione di padre Puglisi, avvenuta il 15 settembre del 1993: “Don Puglisi era un normalissimo parroco che lavorava nella sua azione pastorale anche contro gli avvertimenti e le minacce dei mafiosi, che ebbe numerose prima della sua uccisione. La mafia ha ucciso don Pino perché la sua logica è incompatibile con quella del Vangelo”, così scrive monsignor Bertolone, (Don Puglisi, il prete ucciso dalla mafia perché non aveva nessun padrino, ma solo un Padre celeste, di Michele Pennisi in Tempi. It, 20.08.2013).
La mafia è un progetto terribile di morte, ma non è invincibile! “La mafia non è affatto invincibile. È un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio, e avrà anche una fine. Piuttosto bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave (…)” (da un´intervista su Rai Tre a Giovanni Falcone).
Un fenomeno serio e molto grave che deve far risvegliare le coscienze! Monsignor Galantino intervistato da Radio Vaticana così commenta le parole del Papa: “le parole di scomunica ai mafiosi, in quanto adoratori del male, richiamano tutti a un esame di coscienza sull´indirizzo che diamo alla nostra esistenza (…) Penso che questo invito a risvegliare le coscienze a tener deste le coscienze, sia un invito sostanzialmente radicato nel Vangelo.” (´Avvenire).
La mafia non si nutre solo di omicidi, di soldi, di malaffare e di prepotenza, ma anche di coscienze addormentate. L´appello del Papa è in definitiva un invito forte a iniziare un vero e proprio cammino di liberazione per dire no al male – alla mafia – che per essere efficace deve necessariamente comprendere tre tappe: la conversione, il rifiuto dell´omertà ed una testimonianza cristiana più autentica.
La conversione personale
Per convertirsi occorre cercare il confronto con la Parola di Dio per farsi illuminare la coscienza. La parola di Dio illuminando la coscienza fa scoprire quegli atteggiamenti che in noi sono presenti e che si connotano come antievangelici, come ad esempio la volontà di potere sugli altri che senza ombra di dubbio può instaurare un regime mafioso attorno a se stessi. Gesù, non ha cercato di esercitare il suo potere su coloro che incontrava, bensì di aiutare gli altri a rafforzarsi nel bene, nella carità fraterna, nella comunione, nella figliolanza divina. Se ci si mette dunque in cammino sulla strada della propria conversione, si è compiuto già il primo passo per dire no alla mafia…in se stessi.
Rifiutare l’omertà
Il secondo passo a questo punto diventa inevitabile: rompere le catene degli atteggiamenti mafiosi attorno a sé. Ciò significa soprattutto rompere il silenzio: l’omertà. Fare silenzio dinanzi ad una ingiustizia, ad una calunnia, ad una bugia, significa rinunciare alle proprie responsabilità e, in ultima analisi rinunciare alla propria libertà. Chi fa silenzio ha rinunciato alla sua libertà di parlare e si fa complice di atti compiuti da altri a danno di coloro che non possono difendersi, perché non ne hanno la forza, o non sanno da chi o da cosa difendersi.
Chi fa silenzio, rinuncia alla sua libertà, addormenta
la propria coscienza e diventa
schiavo e complice di coloro che agiscano
con prepotenza, ingiustizia, e violenza.
L´omertà è il terreno fertile che incoraggia,
e suscita comportamenti mafiosi. Fare silenzio
significa fare terra bruciata attorno
ad una persona, una istituzione, una comunità
ecclesiale e lasciarla in balia della prepotenza
mafiosa. Chi si decide per il
silenzio guarda anzitutto al suo interesse
personale: ma chi me lo fa fare? Ecco allora
che l´omertoso mette in atto una logica
anti evangelica. Diventa mafioso lui
stesso! Non è questione di coraggio, che
può mancare è vero, o di paura, che ci può
essere; ma un cristiano sa dove attingere la
forza, e sa nella sua fantasia, dettata
dall´amore fraterno, trovare i modi per intervenire.
La testimonianza
Dalla conversione personale sgorga anche
la Testimonianza cristiana chiara e decisa.
Il cristiano non ha più paura di parlare e
trova il coraggio di testimoniare la sua fede
nella famiglia, nel suo quartiere, nella comunità
ecclesiale, nel mondo del lavoro, rifiutando
qualunque atteggiamento mafioso
e contribuendo così alla costruzione di una
comunità cristiana più bella e di una società
civile più serena dove ogni persona
ha la possibilità di sviluppare le sue doti a
servizio del bene comune. Non si tratta di
diventare cristiani antimafia, ma di iniziare
un cammino di conversione capace di scardinare
la mafiosità dall´interno per distruggerla.
Non è facile, ma dice Papa
Francesco: “la fede ci può aiutare”.
Il cammino di liberazione e purificazione
oltre che personale deve essere anche comunitario
e così a livello diocesano e parrocchiale,
stimolati dalle parole del Papa,
sono state avviate riflessioni e verifiche pastorali.
Si respira insomma un´aria di rinnovamento
ed aumenta il desiderio di
vivere una vita cristiana più autentica e più
capace di contrastare la mafia, e tutto ciò
che può favorire atteggiamenti mafiosi
anche all´interno delle comunità.
Infatti anche nelle comunità può esserci il
rischio di far transitare atteggiamenti mafiosi
e allora bisognerà avere il coraggio di
individuarli per combatterli e avviare un
cammino di conversione. In una verifica
della Parrocchia di San Giuseppe a Scalea
(Cs) si scrive in proposito: “Il Santo Padre,
rivolgendosi ai cristiani di Calabria chiede
di essere coraggiosi assertori del bene e del
rispetto, di fare frontiera contro la cultura e
la civiltà del male che è orientata al malaffare
e alla sopraffazione (…), anche nelle
nostre comunità parrocchiali, corriamo i rischio
di far transitare atteggiamenti mafiosi,
quando si cerca di primeggiare a tutti
i costi generando e operando ogni male nei
confronti dei fratelli, semplicemente perché
non la pensano come noi, che vorrebbero
proporre un modo diverso di essere
Chiesa o, peggio, quando si perseguono interessi
personali nei luoghi resi preziosi per
la presenza del Signore da testimoniare
nella gratuità e nella solidarietà. Anche le
nostre sacrestie, gli ambienti parrocchiali
hanno bisogno di essere purificati da atteggiamenti
che non testimoniano l´amore
di Cristo, troppo spesso proprio in coloro
che vivono quotidianamente a più stretto
rapporto con Gesú”, (parrocchiasangiuseppescalea.
it). La Parrocchia San Giuseppe
di Scalea è solo un esempio, tra tanti,
che indica un cambiamento di direzione in
atto all´interno della chiesa.
A dire il vero la spinta alla conversione e
alla purificazione nella Chiesa per contrastare
la mafia era stata avviata già da Giovanni
Paolo II, che nel suo discorso a
braccio nella Valle dei Templi (9 maggio
1993) chiamerà la mafia una civiltà di
morte e inviterà i mafiosi a convertirsi. Da
quel momento qualcosa sembrava iniziasse
a muoversi nella Chiesa, che per troppo
tempo e in varie occasioni nel passato non
era intervenuta in modo adeguato sulla
questione mafiosa. Quando però sette anni
dopo il grido di condanna di Giovanni
Paolo II, alcuni Vescovi italiani, in occasione
dell´uscita del Nota Pastorale della
CEI su Chiesa e Mezzogiorno (Febbraio
2010), commentano il contenuto della
Nota Pastorale e riflettono sul rapporto tra
Chiesa e criminalità organizzata, l´immagine
di Chiesa che ne viene fuori non è
proprio tra le più esaltanti.
Ritenendo che la lezione di Giovanni Paolo
II alla Valle dei Templi e il suo grido contro
le mafie non sia stato accolto fino in
fondo, monsignor Domenico Mogavero,
Vescovo di Mazzara del Vallo commenta:
“Non tutti siamo sulla stessa lunghezza
d’onda. Non abbiamo avuto il coraggio di
dirci la verità per intero, siamo noi i primi
a non essere stati nemici della corruzione e
del privilegio. Non va moralizzata solo la
vita pubblica, ma anche quella delle nostre
chiese. E la parola terribile "collusione"
deve far riflettere anche nelle nostre comunità”
(Alberto Bobbio Famiglia Cristiana,
14 marzo 2010). Quanto fossero
vere le considerazioni di monsignor Mogavero
l´ha dimostrato l´omicidio di due
sacerdoti: Don Pino Puglisi (15 Settembre
1993) e don Peppe Diana (19 marzo del
1994) che hanno sigillato con la loro vita la
non conciliabilità di una vita cristiana autentica
con la mafia.
Due sacerdoti, in due regioni diverse: don
Pino Puglisi in Sicilia, nel quartiere Brancaccio
di Palermo, don Peppe nel suo
paese natale a Casal di Principe in Campania.
Si tratta di due sacerdoti che hanno
preso a cuore le comunità che sono state
loro affidate e che hanno cercato di fare
crescere nell´amore verso il Signore.
L´amore per il Signore è però esclusivo e
questo ha fatto sì che entrambi abbiano dovuto
prendere posizione e affermare con
chiarezza nel contesto in cui si trovavano
che la vita cristiana e civile esclude l´appartenenza
alla mafia, e qualunque atteggiamento
mafioso.
Purtroppo sono stati lasciati da soli nella
loro azione pastorale non solo dal mondo
civile, ma anche dalla gente delle proprie
comunità e dalla Chiesa di cui pur facevano
parte.
Nel caso di don Pino Puglisi, Mario Lancisi
riporta queste testimonianze nel suo
libro: “ (Padre Puglisi) È stato abbandonato
sicuramente sia dalla Chiesa che dallo
Stato. Dalla Curia e dal mondo cattolico
non veniva mai nessuno a Brancaccio. Eravamo
soli, con nessuno a cui fare riferimento
– racconta a Lancisi Suor Carolina
Iavazzo – Ci ignoravano (…) per il fatto
che noi portavamo problemi. E per la
mafia questo è stato sicuramente un messaggio
forte, preciso. Era un messaggio
muto. E don Gregorio Porcaro, all’epoca
viceparroco (…) ricorda la diffidenza degli
altri preti palermitani nei confronti di quel
parroco che cercava guai. Pino Martinez:
So, e me lo fece capire padre Puglisi, che
c’era una volontà di impegnarlo anche nel
pomeriggio o comunque di allontanarlo da
Brancaccio quanto prima. Lui però mi
disse che non aveva intenzione di andare
via dal quartiere (…) eravamo completamente
isolati, – conclude Martinez, sulla
scia di Falcone. (…) Una solitudine, quella
di padre Puglisi, che interpella le responsabilità
delle istituzioni, ma anche quelle
della Chiesa e dei cristiani, aggiunge l’ex
procuratore di Palermo Giancarlo Caselli”.
(Mario Lancisi, La solitudine di don Puglisi,
presentazione di Luca Kocci
dell’agenzia ADISTA 5 luglio 2013).
Anche Don Peppe Diana fu lasciato da
solo e non ebbe tutto il sostegno da parte
della Stato e della Chiesa come invece avrebbe
dovuto avere. E quando si è lasciati
da soli iniziano i problemi: Lo spiegava
anche Giovanni Falcone a Marcelle Padovani,
nel libro intervista Cose di Cosa Nostra,
poco prima di essere ucciso egli
stesso: «Si muore generalmente perché si è
soli o perché si è entrati in un gioco troppo
grande. Si muore spesso perché non si dispone
delle necessarie alleanze, perché si è
privi di sostegno». (…)”(Luca Kocci, Adista
5 Luglio 2013). Don Pino e don Peppe
con il loro sacrificio hanno spezzato, come
dice monsignor Bertolone, “per sempre il
legame sia pur apparente, tra la mafia ed il
cristianesimo (…) e concorrono allo smascheramento
dell´ateismo pratico e della
pseudo-religiosità dei mafiosi e di tutti coloro
che pur cristiani per il battesimo ricevuto
ma rinserrati in un fideismo troppo
accomodante verso i poteri iniqui del
mondo, se ne fanno complici per via della
loro sostanziale indifferenza pratica al
male (…)”. (Intervista a Mons. Vincenzo
Bertolone, Don Puglisi presto beato e martire
di mafia in: Adista, 2012, n.12).
Quando una comunità, in cui il parroco è
ostacolato o peggio ancora minacciato gravemente
perché lavora per la sua comunità
e vuole impedire che atteggiamenti mafiosi
influiscano sulla vita comunitaria di tutti,
abbassa lo sguardo, si chiude le orecchie, e
lascia il proprio parroco da solo, deve essere
chiaro a tutti, che essa – la comunità
– non agisce secondo la logica del vangelo,
ma secondo logiche mafiose. Questa situazione
purtroppo si è verificata per don Pino
Puglisi e per don Peppe Diana e deve fare
riflettere.
Laddove infatti dovesse rendersi evidente
una anti – cultura mafiosa, un parroco non
può e non deve “chinarsi” perché ha una
responsabilità ministeriale e pastorale nei
confronti della comunità che gli è stata affidata,
e la comunità cristiana non può nascondersi
dietro un velo omertoso perché
perderebbe la sua libertà, e la sua forza di
contrasto nei confronti del male perdendo
così anche la sua capacità di testimoniare il
vangelo. Se in una comunità non ci si accorge
del terribile e grave danno che la
anti-cultura mafiosa provoca alla propria
identità cristiana, allora vuol dire che si è
persa la sensibilità per la Parola di Dio, la
percezione della libertà cristiana, e conseguentemente
il desiderio e la gioia di testimoniare
la propria fede.
Papa Francesco non si rivolge solo ai fedeli,
ma anche ai sacerdoti, ai vescovi e a
tutti coloro che esercitano un ministero
all´interno della Chiesa chiedendo loro di
spendersi perché il bene possa prevalere.
Lo aveva già fatto nel Natale del 1991 don
Peppe Diana: “(…) Ai preti nostri pastori e
confratelli chiediamo di parlare chiaro
nelle omelie ed in tutte quelle occasioni in
cui si richiede una testimonianza coraggiosa.
Alla Chiesa che non rinunci al suo
ruolo “profetico” affinché gli strumenti
della denuncia e dell’annuncio si concretizzino
nella capacità di produrre nuova
coscienza nel segno della giustizia, della
solidarietà, dei valori etici e civili.”(Per
amore del mio popolo, Forania di Casal del
Principe, Natale 1991).
Si dovrebbero allora avviare riflessioni e
strategie che aiutino a riconoscere e a bloccare
l´influenza che eventualmente il fenomeno
mafioso potrebbe esercitare anche
nelle strutture ecclesiali tedesche. Ciò non
solo è possibile, ma è già successo in Italia
e dovrebbe essere considerato come un
monito. Laddove ci sono, infatti, strutture
di potere, di qualunque natura esse siano,
la possibilità che si diffondano atteggiamenti
mafiosi è sempre alta anche per la
Chiesa. Il rischio è per lo meno plausibile
e andrebbe considerato: in Italia, come in
Germania e in tutto il mondo. Papa Francesco
lanciando il suo appello ha indicato
la direzione da seguire. Ai cristiani e a tutti
gli uomini di buona volontà adesso il compito

di intraprendere il viaggio!