Sono quasi tremila gli italiani attualmente detenuti all’estero. Spesso si tratta di storie di diritti negati. Tra queste, c’è quella di Daniele Franceschi, morto lo scorso mese nel carcere francese di Grasse in circostanze ancora tutte da chiarire. La sua è una di quelle storie con alle spalle una famiglia, che mai ha creduto alla versione francese dell’arresto cardiaco. Ed, in effetti, quella di Franceschi è una vicenda che appare poco chiara sin da subito.
Ma andiamo per gradi. Daniele muore il venticinque agosto scorso, ma la notizia viene comunicata alla famiglia solo tre giorni dopo. All’autopsia, fatta in fretta e furia, viene negata ai familiari la partecipazione di un medico legale di fiducia. “Procedura di nomina troppo complessa”, hanno detto. La decisione, così incomprensibile di fronte al dolore della morte di un figlio, non può che suscitare già qualche lecito sospetto. Tra l’altro, i fatti e le dichiarazioni emersi in questi giorni sulla stampa rafforzano questa ipotesi. Sin dal suo ingresso in carcere, nello scorso marzo, Daniele scriveva e parlava con i familiari di maltrattamenti subiti. Si lamentava di un particolare “astio verso gli italiani, forse a causa del calcio”. Poi, la febbre alta e poche cure sanitarie. Infine, solo dopo cinque mesi di detenzione, Daniele è stato trovato morto nella sua cella. E anche qui, è un susseguirsi di mille contraddizioni. La madre, alla quale è stato alla fine permesso di vedere la salma del proprio figlio, ha fatto sapere di aver notato in Daniele il “naso gonfio, come rotto”.
La controparte ha sempre negato questa versione. Intanto, le dichiarazioni degli interrogati sono nel tempo cambiate. Se prima Daniele sarebbe stato trovato morto sul letto, con un giornale sul viso, in un secondo momento sarebbe invece stato trovato a terra, a fianco del letto. Come a giustificare quella contusione. Insomma, che sia vero o no, la non trasparenza legittima ogni dubbio.
La madre ha subito chiesto di poter effettuare una seconda autopsia sul figlio. E’ di qualche giorno fa la notizia che dalla Francia è arrivata l’autorizzazione all’esame, ma solo dopo che la salma rientrerà in Italia, quindi non prima di qualche settimana. A comunicarlo sono state le stesse autorità francesi, che hanno parlato di “diritto all’autopsia per i familiari”. Strano come in questi casi il diritto, quanto di più nero su bianco esista al mondo, si trasformi in un’opinione soggettiva. Certo è che, in quel giorno di marzo, Daniele Franceschi, carpentiere navale di Viareggio, 31 anni, separato e padre di un figlio di nove, viene arrestato in un casinò a Cannes per falsificazione e appropriazione indebita di carta di credito.
E certo è anche che, da quel giorno, Daniele ha smesso di essere persona per diventare detenuto, rivoluzionando la sua esistenza, fino a morire. Ha valicato quel confine che separa la società, in cui violare le regole è a volte legittimato anche tra i poteri alti, da quella zona franca rappresentata dal carcere, sia essa in Italia, Francia o altrove. Luogo in cui il carceriere e il carcerato si scambiano i ruoli, libero da regole, anarchico, in cui potersi sfogare senza la pressione del controllo sociale. Lo stesso Daniele raccontava di essersi ribellato in carcere ad un lavoro massacrante, al limite del disumano e, accusato di non voler lavorare, di essere poi ritornato nei suoi passi per la paura di ritorsioni. La soluzione è allora reprimere questa rabbia, sopportare ed imparare a conviverci per evitare di subire ancora. Non tutti però ce la fanno, e non stupisce allora che in Italia, dove la situazione delle carceri si distingue in negativo, muoiano centinaia di detenuti l’anno per suicidio. Altri per malattie, scarse cure sanitarie, overdose o per circostanze mai chiarite.
Ma lo dicevamo, ci sono alcuni casi in cui la violazione dei diritti è più giustificata che in altri. Il detenuto è accomunato alle categorie emarginate, come poveri o immigrati, i cui diritti sono più permissivamente calpestabili. La questione si ricollega, poi, all’annosa diatriba tra visione del carcere come luogo di riabilitazione o luogo di penitenza. Dal canto suo, la giurisdizione internazionale non aiuta in questo senso. Dice che ogni Stato è sovrano all’interno del proprio territorio. Questo significa che se si viene arrestati in India o in Messico, si verrà sottoposti alle legislazione indiana o messicana.
Esiste la possibilità da parte del proprio Paese di richiederne l’estradizione, ma l’esito di tale richiesta dipenderà dai rapporti diplomatici dei paesi interessati, facilitati dall’eventuale scalpore del caso. La legislazione internazionale, insomma, c’è , ma applicarla resta un fatto di buon senso. Se questa considerazione diventa determinante per i casi di detenzione in paesi oltreoceano, lascia il tempo che trova per quello di Daniele Franceschi, detenuto in un paese europeo quale la Francia. Così come perde valore se si pensa alle condizioni disumane che gli stessi detenuti italiani sono costretti a subire nelle superaffollate carceri nostrane, presumibilmente “tutelati” dalla legislazione italiana. Per chi non è destinato a rimanere solo un numero da statistica o neanche quello, il ruolo della famiglia diventa, allora, fondamentale nel sopportare la propria condizione, soprattutto se reclusi a migliaia di chilometri dal proprio paese.
Spesso, però, questo non è possibile a causa delle insostenibili spese economiche a carico delle famiglie. A denunciarlo è l’associazione Prigionieri del Silenzio, che dal 2008 lotta per i diritti degli italiani detenuti all’estero. Nel proprio sito, l’associazione denuncia come “alcuni detenuti non vedono o parlano con nessun familiare da anni” e propone banali ma efficaci soluzioni come agevolazioni sui viaggi e comunicazioni via skype. Resta comunque la necessità di muoversi anche in altre direzioni, come quella del “gratuito patrocinio” e di una maggiore preparazione giuridica all’interno dei consolati, uniche strutture in grado di far pressione sui Governi stranieri. E’ da sottolineare, infine, che l’83,5% degli italiani detenuti si trova proprio in Europa.
Lo dicono i dati del Ministero degli Affari Esteri, secondo i quali, il primato spetta alla Germania (1.079 su 2.905 totali), seguita da Spagna (458) e Francia (231). Fuori d’Europa, sono invece gli Stati uniti in testa alla lista (91). Sul totale, i condannati sono 1.842, mentre 1.063, come Daniele Franceschi, rimangono ancora in attesa di estradizione o giudizio.