Nella foto: Meditazione. Foto di © Muntaha Nega su Pixabay

Chi siamo veramente e cosa vogliamo essere

La questione relativa ad una definizione filosofica dell’esserci umano che soddisfi l’esigenza di essenzialità propria di una solida definizione filosofica, è stata affrontata anzitutto da Aristotele, quando ha parlato dell’uomo come di un animale razionale. L’animalità e la razionalità sono, secondo il filosofo di Stagira, gli elementi essenziali che definiscono l’uomo in rapporto al resto dell’essente. Mentre le piante sono dotate esclusivamente di vita vegetativa, l’animale aggiunge a questa la vita della psiche, datagli dal fatto di essere dotato di un organo, quello cerebrale, che gli consente di percepire, provare emozioni, sentire piacere e dolore ecc. Nell’uomo, a queste due forme di vita, se ne aggiunge una terza, quella della vita razionale.

L’uomo sarebbe l’unico essere vivente dotato di capacità di pensiero, con tutto ciò che il verbo pensare contiene in termini di potenzialità siano esse cognitive, etiche, artistiche o religiose. Ora, mentre Aristotele intendeva la vita razionale nell’uomo come un’espressione della vita psico-fisica – cioè impensabile al di fuori del suo rapporto con la materia di cui è forma – è nota a molti la teoria dell’anima di Platone, maestro di Aristotele, che invece pensava all’anima (ed in ciò anche tutto ciò che in termini di funzioni le è legata) come ad una sostanza che certamente abita il corpo, ma del quale è solo temporaneamente prigioniera.

Il mito del corpo mortale come prigione dell’anima immortale, diverrà nel corso dei secoli del primo cristianesimo, imbevuto di neoplatonismo, il modello ermeneutico prediletto sia dell’antropologia cristiana che di altre discipline teologiche in cui il dualismo di forma e materia diventa utile per spiegare il rapporto tra la dimensione effimera della materia e quella eterna dello spirito.

Con il passare dei secoli, l’avvento del metodo sperimentale proprio delle scienze naturali e il graduale progresso della medicina, il discorso del rapporto tra anima e corpo, tra spirito e materia, tra organismo e vita razionale, si è rivelato ben più complesso di quanto Platone avesse potuto intuire.

Tuttavia, mentre la storia del pensiero scientifico sembra aver dato ragione al filosofo dell’esperienza Aristotele, piuttosto che a quello delle idee Platone, individuando nella vita razionale una funzione dell’unità dei tre livelli di vita presenti nell’essere umano indivisibile dagli altri, la questione del rapporto tra materia e spirito, tra organicità e struttura mentale, non sembra essere così facilmente risolvibile. In anni recenti, il filosofo tedesco Markus Gabriel, che si è intensivamente occupato di teorie della conoscenza e problemi epistemologici, ha aspramente criticato le tesi neurocentriste, secondo le quali non vi sia un “Io” pensabile come sostanza a se stessa, quanto piuttosto un organo cerebrale in cui sono presenti aree con differenti funzioni ed in cui si risolverebbe, tra le altre, anche la questione del pensiero. D’altra parte, le entità mentali, i pensieri, in numeri, i sentimenti e tutto ciò che la nostra vita cosciente produce, sembra essere ben altro che mera reazione chimica.

Chi pensa, in altre parole, non sono i nostri cervelli, bensì piuttosto individui e comunità di individui nella misura in cui essi sono coscienti e interagiscono come “persone” l’un gli altri attraverso il linguaggio. Certo, non potremmo pensare, senza un corretto e sano funzionamento dell’organo cerebrale, ma far coincidere Io e cervello è una tesi talmente azzardata che neppure il materialismo più radicale può essere in grado di sostenere, senza cadere in evidenti contraddizioni. Quando noi parliamo dell’Io, intendiamo anzitutto una condizione di possibilità e in questo caso specifico, la prima in assoluto.

Che sia possibile qualsiasi discorso dotato di senso, anche quello scientifico, lo dobbiamo al fatto di possedere una macchina che funziona, ma il software ha leggi tutte sue. Un pensiero che cercasse di negare la sostanzialità dell’Io, definendolo come un’illusione riconducibile a reazioni chimico-fisiche, negherebbe in realtà, per usare ancora una metafora informatica, l’autonomia di quel sistema operativo che offre la piattaforma al resto dei programmi di espletare le proprie funzioni, anche, appunto, al programma “discorso scientifico”. Oltre a ciò vi è una dimensione storico-socio-linguistica che sta alla base di tale discorso e che è il frutto di un lavoro collettivo in cui “individui”, i quali hanno generalmente studiato in un’università, hanno una propria biografia, fatta di esperienze, affetti, rapporti personali, scelte, giuste o magari sbagliate, studiano il funzionamento dell’essere umano tentando di farci capire come sia possibile, da un punto di vista biologico, che nell’uomo sia comparso un fenomeno così unico quanto misterioso come il pensiero.

Tuttavia, il discorso in se stesso, è il risultato della presenza di strutture logiche dotate di una loro grammatica, le quali fanno capo a quella condizione, diremmo kantianamente, a priori che ho definito, per l’appunto, l’Io.

Il dibattito tra filosofia e scientismo neurocentrico ci fa riscoprire la necessità di ridefinire l’esserci umano nei suoi caratteri distintivi. Martin Heidegger e con lui diversi pensatori del ‘900, hanno tentato di ripensare la ricerca attorno all’Io in senso ontologico-storico-esistenziali. Altri, ad esempio Buber, Lévinas e Rosenzweig, hanno provato a farlo nei termini di dialogo e relazione. Gli approcci esistenzialistico-personalistico e ontologico-dialogico, nel ‘900, sono stati la risposta filosofica ai drammi storici vissuti in un’epoca in cui, assieme, all’enorme accelerazione del progresso in campo scientifico, assistevamo all’armamento nucleare delle due super potenze Usa e Unione Sovietica.

Al giorno d’oggi, dopo settantasette anni dalla fine del secondo conflitto mondiale e dopo innumerevoli conflitti in Vietnam, Nordafrica, Medio Oriente, nei Balcani ecc. ecc., ci troviamo a rivivere timori che nell’Europa occidentale non si percepivano da tempo. Che ciò non sia il segno di una rinnovata urgenza di dover ridefinire ancora una volta chi veramente siamo e vogliamo essere?

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