Siamo ancora piuttosto lontani dall’intravedere una fine della crisi del diesel ma intanto a Bruxelles si sta lavorando a una riforma della procedura di omologazione delle nuove auto in grado di evitare altri casi Volkswagen o procedure d’infrazione come quella ora avviata nei confronti del gruppo italo-americano Fca

Lo scandalo delle manipolazioni delle emissioni dei gas di scarico delle auto diesel Volkswagen esploso nel settembre del 2015 condiziona pesantemente l’industria automobilistica della Germania, ma anche quelle di Italia, Francia e degli Usa (dove oltre alla Chrysler anche la General Motors ha installato illegali sistemi di controllo delle emissione), tutte più o meno coinvolte nella vicenda delle emissioni manipolate. A conti fatti, nessun produttore sembra oggi essere estraneo al dieselgate, eccettuata la sola Bmw la quale insiste nell’asserire di non aver mai installato nelle sue vetture diesel sistemi di controllo dei gas di scarico. Però la settimana scorsa il Umweltbundesamt (UBA) – Ufficio federale dell’Ambiente – ha pubblicato l’elenco di 13 attuali autovetture diesel, tra cui due Bmw che nelle prove su strada superano largamente il limite massivo di emissione di 80 milligrammi di NOx (ossido di azoto) previsto dalla Ue. Sotto accusa c’è anche il gruppo italo-americano Fca che è stato chiamato a dare chiarimenti sia dalla Commissione Ue sia dall’EPA americana, la Environmental Protection Agency. L’amministatore delegato (ad) Marchionne e il ministro italiano dei Trasporti Graziano Delrio continuano però a sostenere che si tratterebbe di un malinteso che avrebbe potuto essere evitato se le indagini avviate su richiesta del governo tedesco dopo lo scandalo Volkswagen (nello spirito del proverbio “mal comune mezzo gaudio”) fossero state svolte in collaborazione con i diretti interessati. Delrio ha ora due mesi di tempo per rispondere ai quesiti postigli dalla commissaria Ue per l’industria, Elzbieta Bienkowska.

Cala la domanda delle auto diesel

Intanto, le nuove immatricolazioni di auto diesel diminuiscono di mese in mese su tutti i più importanti mercati e soprattutto in Germania, ma anche altrove dove è piuttosto prevedibile l’eventualità di un divieto di circolazione delle auto diesel nelle città più colpite dalle emissioni dei gas di scarico. È improbabile che le tecniche adottate con grande sollecitudine dai gruppi automobilistici nelle nuove generazioni diesel (Ue norma 6) possano invertire questo trend, anche perché a quanto pare le emissioni continuano a superare decisamente i limiti previsti dalle leggi ambientali. Lo scandalo del dieselgate ha investito in pieno anche la prestigiosa Mercedes le cui sedi centrali nell’ultima settimana di maggio sono state messe a soqquadro da una nutrita squadra di poliziotti e funzionari giudiziari. Vi sarebbero precise prove di un deciso coinvolgimento della Bosch, il più grande produttore mondiale di tecnologia diesel, la quale deve ora dare per scontate pesanti ripercussioni economiche e occupazionali in seguito alla crisi del diesel. Una crisi che alcuni giudicano molto grave, a giudicare dal fatto che la Volvo ha deciso di non investire più nel diesel e di cercare la sua futura salvezza in altre tecniche di locomozione. Una decisione, per quanto comprensibilmente dolorosa, che sta già facendo sentire i suoi effetti in Germania soprattutto sulla Volkswagen e sulla Daimler.

Disastro irreparabile

Le conseguenze dello scandalo delle emissioni dei motori diesel tengono ormai giornalmente impegnate le Procure di Stato di tutti i Paesi industrializzati mondiali. Il motore ad autoaccensione fu per decenni l’orgoglio dell’industria automobilistica tedesca fino a quando nel settembre del 2015 Martin Winterkorn, ex numero uno del grande gruppo Volkswagen, si vide costretto a confessare pubblicamente le manipolazioni tecniche che fino a quel momento avevano fatto apparire il diesel come il motore più pulito al mondo. Un motore in grado di assicurare a “Vw & Co.” il primato sul mercato mondiale relegando sulle seconde e terze posizioni tutte le altre industrie automobilistiche, a partire dal Giappone, dagli Usa fino alla Corea del Sud e alla Cina. A due anni dall’incredibile scandalo farebbe la figura dell’ingenuo chi chiedesse il nome anche di un solo responsabile del dieselgate. Anche Winterkorn continua a sostenere di non aver mai avuto dubbi sulla correttezza dei tecnici del suo gruppo di Wolfsburg e come lui anche tutti gli altri membri della direzione centrale continuano ad affermare di essere letteralmente caduti dalle nuvole. Più o meno lo stesso atteggiamento avevano assunto inizialmente i responsabili del gruppo Daimler di Stoccarda, il governo federale di Berlino, il ministro federale dei Trasporti, Alexander Dobrindt, il Kraftfahrt-Bundesamt (Ufficio federale della Motorizzazione, addetto alla sorveglianza delle prescrizioni tecniche per il rispetto dell’Ambiente), e per finire anche le varie organizzazioni che a Bruxelles all’interno del complesso apparato dell’Ue si sono occupate del coordinamento della politica dei trasporti e della difesa dell’Ambiente.

Tutti sapevano e tacevano

In realtà le conseguenze dello scandalo degli inquinamenti causati dai motori diesel erano già note da almeno una decina d’anni, altrimenti non si spiega come mai da un certo punto in poi la Ue avesse preso a insistere sul governo di Berlino affinchè ponesse fine con decisione alle sistematiche violazioni delle norme ambientali in fatto di ossido di azoto (NOx). Violazioni molto gravi in 40 città e aree industriali in Germania e con conseguenze drammatiche se si considera che stando ai calcoli dell’ Agenzia Europea dell’Ambiente già nel 2012 in Germania 10.400 persone erano morte a causa del NOx emesso dai motori diesel, un bilancio che in tutta Europa saliva a 75.000 persone.

L’unico gruppo che sembrava fare eccezione era, come detto all’inizio, la Bmw, ma a Monaco si alludeva evidentemente soltanto ai risultati ottenuti durante le prove di laboratorio. Sulla strada, come ora ha constatato l’ente UBA di Berlino, la musica cambia completamente. Stando al giudizio di uno dei più accreditati osservatori dell’industria automobilistica tedesca – Ferdinand Dudenhöffer, direttore del CAR Center Automotive Research all’Università di Duisburg-Essen – troppo a lungo il governo di Berlino avrebbe chiuso gli occhi di fronte alla disinvolta politica industriale dei vari grandi gruppi automobilistici tedeschi orientata più sul guadagno che sulla riduzione delle emissioni dei gas di scarico dei motori diesel. Avrebbe dovuto farlo da tempo promovendo con maggior impegno l’utilizzo del motore elettrico, ma ciò avrebbe presupposto la determinazione dei grandi vari gruppi tedeschi di non considerare la rinuncia al diesel, o comunque un suo ridimensionamento, come una penosa amputazione del prestigioso “made in Germany”.