Il prologo

Si apre, improvvisamente, il sipario. Ad apparire sul palco, questa volta, non è il commediante, l’attore oppure la ballerina, ma il direttore di scena, che dal proscenio si rivolge ad alta voce alla platea, alla balconata, al loggione, al foyer e addirittura al botteghino annunciando con la stessa autorità di un giudice che annuncia una sentenza oppure di un prete che mette fine alla messa: “Le razze non esistono più, andate tutti a casa!”.

Il pubblico inizia a urlare e fischiare, c’è chi grida “vergogna!”, “complotto!” e “che schifo!” – ma poi, rassegnati, gli spettatori si alzano e abbandonano la sala. Il critico teatrale, deluso, chiama in redazione e spiega alla giovane redattrice che questa sera non le manderà nessun articolo sull’anteprima del nuovo spettacolo, motivando la sua decisione con l’annuncio del direttore. “La razza è scomparsa e con lei anche la tragedia”, sostiene il critico. Ma la redattrice non molla la presa: “E allora scrivi qualcosa sulla fine, sulla fine della tragedia!”.

Atto primo: la polemica

L’antefatto è solo un’allegoria di quel che, assurdamente, sta succedendo in Germania: dopo la morte di George Floyd negli Stati Uniti, il leader dei Verdi, Robert Habeck, ha proposto di cancellare dall’articolo 3 della Costituzione tedesca la parola “razza”. L’articolo afferma infatti che “nessuno può essere discriminato o privilegiato a causa del suo sesso, la sua discendenza, la sua razza, la sua lingua, il suo paese, la sua origine o le sue convinzioni religiose e politiche”. “E’ giunto il tempo di dimenticare tutti insieme il razzismo”, sostiene Habeck, appoggiato da non pochi esponenti di altri partiti – soprattutto della Linke e della Spd.

È indubbiamente vero che le parole sono anche atti, dei quali è necessario fronteggiare le conseguenze. Esse sembrano non avere peso e consistenza, sembrano entità volatili, ma sono in realtà meccanismi complessi e potenti, il cui uso genera effetti e implica responsabilità: le parole – possiamo dire – “fanno le cose”, come suggerisce, fin dal titolo, un libro celebre del linguista John L. Austin. “I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo” ha scritto il filosofo Ludwig Wittgenstein. La parola, dunque, non nasce dall’idea, ma bensì l’idea deriva dalla parola.

La domanda da porre, a questo punto, è quella che va in direzione contraria: cancellando le parole si possono eliminare anche le idee? In altre parole: cancellando il termine “razza” – che nella scienza non ha più una ragione d’essere – tramonterebbe anche il razzismo? Mi pare ovvio, purtroppo, che non è così. Sarebbe come sostenere che eliminando la parola fascista, si potrebbe sancire la fine del fascismo – magari, mi verrebbe da dire!

Atto secondo: la messinscena della razza

Per G. K. Chesterton le fiabe non dicono ai bambini che esistono i draghi: i bambini sanno già che esistono. Le fiabe dicono ai bambini che i draghi possono essere sconfitti. Ecco, la Costituzione è come una fiaba, una fiaba straordinaria che non dice ai cittadini che le razze esistono, ma che il razzismo dev’essere sconfitto, che il razzismo non può far parte della nostra società.

La ministra della Giustizia, Christine Lambrecht, difende il testo costituzionale, spiegando che la parola razza “non indica l’esistenza di diverse razze umane o alcuna accettazione di questa visione”. Anzi: “I padri e le madri del Grundgesetz” – secondo Lambrecht – “erano interessati a mandare un segnale forte contro l’ossessione razziale che fu propria del nazismo”. La razza, per dirla in altre parole, è una crudele finzione per giustificare la discriminazione.

Quel che serve, dunque, non è un semplice atto legislativo, un atto puramente simbolico, come quello di cancellare la parola “razza” oppure sostituirla con un altro sostantivo (ad es. etnia). Quel che serve, piuttosto, è una netta presa di posizione da parte di tutti – soprattutto da parte degli schieramenti politici – contro ogni forma di razzismo, iniziando dalle scuole. A cosa serve eliminare la parola “razza” se poi anche gli stessi politici non mandano i loro figli nelle scuole con arabi e turchi, ma piuttosto in quelle dove trovano la loro stessa etnia, magari in istituti privati che costano una marea di soldi? A cosa serve eliminare la parola “razza” se poi nelle scuole non si parla del principio fondamentale di ogni costituzione democratica, il principio di eguaglianza?

L’assenza di un epilogo

La differenza ontologica tra eguaglianza e libertà sta nel fatto, purtroppo, che la libertà è una condizione naturale, uno status che ognuno di noi può pensare ed intuire senza una chiave di lettura specifica, senza una riflessione basata su una visione ideologica del mondo. L’eguaglianza, invece, è un’idea che dev’essere interiorizzata, pensata e ripensata, riflettuta e, infine, rispettata, giorno per giorno, in ogni situazione della vita, sia privata che professionale. A differenza della libertà, l’eguaglianza è un principio estetico, ricavato – künstlich, direbbero i tedeschi. In quanto individui siamo tutti liberi, ma solo in quanto ogni uomo ha pari dignità siamo tutti uguali. L’invenzione della dignità ha reso possibile l’ascesa dell’uguaglianza. La natura non ci ha fatto identici, fortunatamente, ma siamo simili e, dunque, uguali grazie ad una straordinaria idea politica che – dopo tante lotte – si è trasformata in un concetto giuridico, per l’appunto: nel principio di eguaglianza.

Solo nelle esigenze e necessità naturali gli uomini sono uguali, ma non nei desideri e nei sogni: ecco perché il fatidico discorso di Martin Luther King, nell’ormai lontano 1963 a Washington, davanti a 200mila persone, inizia con “I have a dream” e non con “We have a dream”. La tragedia del razzismo non si manifesta, dunque, nel fatto che esiste la parola “razza”, ma nell’assurda e triste constatazione che non tutti, ascoltando la voce vibrante da baritono di Luther King, si commuovono nell’ascoltare il suo disperato appello di speranza che – nonostante gli anni passati – non ha perso un solo grammo di attualità.

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