Da parecchi numeri stiamo proponendo uno dei più straordinari comprensori storico-artistici, compreso in pochi chilometri, tra la Castellana e la Pedemontana, sempre in provincia di Treviso: Castelfranco, Fanzolo, Maser, Asolo e Possagno racchiudono un patrimonio ineguagliabile di testimonianze storiche (castelli e ville) e di opere d’arte. Si può dire che Palladio, Veronese, Giorgione e Canova abitino qui. Anzi alcuni di loro sono figli di questa terra, come il già ricordato Giorgione e Canova. Figli che hanno lasciato un segno imperituro nei luoghi di origine. In particolare Antonio Canova (1757-1822).

Per chi da Asolo s’inoltra verso nord, tra verdi colline dolcemente ondulate, giunge quasi improvvisa la vista di un Tempio imponente e solitario, che sovrasta il panorama. Una vista che sorprende ed attrae. Perché si tratta davvero di un Tempio, te lo dicono quel doppio colonnato dorico così imperioso che funge da pronao, come nei templi antichi, ed il corpo circolare dell’edificio sovrastato da una cupola emisferica. Richiama da vicino il Partenone di Atene ed il Pantheon di Roma. Del resto quali altri modelli poteva avere Canova, il progettista, che dell’arte greco-romana aveva fatto un culto?

Per dare una nuova chiesa parrocchiale alla comunità, l’artista offriva il progetto ed i fondi necessari, mentre la comunità forniva la calce, la sabbia, i sassi ed il lavoro. E l’11 luglio 1819, nella cornice di grandi feste, ci fu la posa della prima pietra del Tempio. Per 11 anni tutta la comunità fu impegnata a procurare i materiali e la manodopera, lavorando anche la sera e in qualche giorno di festa.

Purtroppo il Canova riuscì a vedere solo la prima fase dei lavori perché morì il 13 ottobre del 1822. Ma fino all’ultimo la sua preoccupazione era per quel cantiere, affidato ad un suo cugino, Giovanni Zardo, a cui, due mesi prima di morire raccomandava “per l’amor del cielo, che si faccia tutto con la maggior esatezza (sic!). Tu non puoi immaginare con quanta aspettazione si parli da per tutto di questa fabrica”.

I lavori furono continuati dal fratellastro (nato dal secondo matrimonio della madre) Giovanni Battista Sartori, abate e poi vescovo, dal 1801 assistente, segretario e consigliere del Canova. Fu lui a provvedere all’allestimento interno del Tempio con opere del fratello: la grande Pala con “Il compianto di Cristo” nell’abside centrale, il gruppo della “Pietà” sulla sinistra, modello in gesso del Canova poi fuso in bronzo dal Ferrari, e la tomba dell’artista, che raccoglie le sue spoglie in un sarcofago recuperato nello studio di Roma. Spoglie contese da molte istituzioni: Venezia, volle trattenere il cuore del sommo artista in un monumento eretto nella Basilica dei Frari, mentre la Veneta Accademia volle custodire la sua mano destra, ricongiunta al corpo nella tomba di Possagno solo nel 2009. Quasi fossero reliquie di un santo, divenute oggetti di culto.

Eppure le sue origini erano umili: figlio di uno scalpellino, orfano di padre all’età di 4 anni, lasciato dalla madre passata a seconde nozze ed affidato al nonno Pasino, altro tagliapietra, piuttosto burbero e manesco, che gli insegna a lavorare pietre e marmi, forniti dalle vicine cave del “biancone”, e lo fa entrare nelle benevolenze del senatore veneziano Giovanni Falier, di cui Pasino è uomo di fiducia nella sua villa di Asolo.

Il Falier coglie subito le non comuni doti di “Tonin” (tra l’altro da un modello in burro del leone alato di San Marco preparato per un banchetto in villa) e lo introduce nella bottega dello scultore Giuseppe Bernardi detto il Torretti, prima a Pagnano d’Asolo e poi a Venezia. E comincia a commissionargli opere sempre più impegnative, come le statue di “Orfeo ed Euridice”, che pongono al ragazzino (15-16 anni) il problema di affrontare il nudo femminile di una modella. Dura l’opposizione del nonno, preoccupato di “perdere in paese il suo buon nome”, ma alla fine giunge il suo consenso, a patto che il lavoro si svolga in casa sua e alla presenza di due persone di fiducia.

Ormai le porte di Venezia per “Tonin” sono aperte: col sostegno del Falier e del nonno, che vende un campo di terra, può frequentare, anche se a part-time con la bottega del Torretti, l’Accademia di pittura e scultura a Venezia (1769-1776) e, lavorando a nuove commesse, porsi all’attenzione dei circoli culturali veneziani e delle famiglie più altolocate. Così Gerolamo Falier, ambasciatore veneto presso la Santa Sede, lo ospita a Roma, quando il giovane Canova decide nel 1779 di lasciare Venezia, affascinato dalla capitale, divenuta, grazie ai suoi monumenti, alle recenti scoperte di Ercolano e di Pompei ed alle teorie estetiche del Winckelmann, la capitale del neoclassicismo.

A Roma Canova viene seguito dall’abate Foschi, che lo istruisce nell’italiano (gli resterà qualche problema ortografico), nelle lingue e nella conoscenza del mondo classico. Qui ha inizio quella grande carriera che lo metterà in rapporto con i grandi personaggi della cultura del tempo (Foscolo, Stendhal, Lord Byron, Leopardi) e con i potenti dell’epoca (il Papa, Napoleone, re Giorgio IV, Alberto di Sassonia), lodato ed esaltato come un mito.

Nonostante tutto questo, il sommo artista rimase sempre il geniale artigiano, uso a ricevere nel suo laboratorio con il martello e lo scalpello in mano ed un berretto di carta in testa, sempre innamorato della propria terra, dove “si sentiva a casa”, in un ambiente ricco di rapporti umani, semplici e schietti.

Ed a Possagno, per volontà del fratello mons. G. B. Sartori, che vi trasferì per terra e per mare tutti i gessi, gli strumenti di lavoro e la biblioteca dello studio romano, è raccolta la grande memoria dell’arte e della vita di Antonio Canova, in un eccezionale museo eretto nel giardino della sua casa natale, ai piedi della salita che porta al Tempio. Una visita che lascia il segno negli occhi e nel cuore e che riserveremo al prossimo numero.

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