Un lettore di Bienne, dopo aver letto l’ultimo mio articolo su l’inquinamento ambientale dovuto ad associazioni mafiose e alla corruzione di funzionari pubblici e privati, mi scrive di aver provato, ancora una volta, una tale “nausea e noia” da spingerlo a pensare che votare sia un “predicare nel deserto”, a causa di una Costituzione “che permette il casino”, al Porcellum ancora in vigore e alla mancanza di un “Uomo della Provvidenza che indichi una via diversa con una Costituzione diversa”, così da annullare la Gerontologia, quell’anomalia tipicamente italiana grazie alla quale “sono sempre i vecchi a dirigere, non c’è posto per i giovani”.
Per dimostrare che non ci saranno modifiche sostanziali, cita un brano del libro Good Italy, Bad Italy di Bill Emmont, edito nel 2012, riferito da E. Garessus su Le Temps del 23 gennaio scorso. Secondo lo scrittore inglese, “la cattiva Italia è quella della corruzione, dei privilegi e degli ostacoli alla flessibilità e all’innovazione”, per cui si trova al 157mo posto al mondo (su 183) per la “capacità di rispettare i contratti”. E ne deduce che “non la sinistra, non la destra, neppure il centro (Monti) applicheranno questo programma”, dopo le elezioni. Semplicemente perché, chiunque sia il vincitore, “i privilegi saranno mantenuti”. E la corruzione pure. Quanto basta per convincere il mio lettore che non serve votare, l’astinenza essendo “la punizione che si meritano; vanno messi con le spalle al muro, altrimenti non cambiano mai”.
Il lettore non mi trova d’accordo, benché capisca il suo stato d’animo. Anche perché non tiene conto che, votando all’estero in base alla legge Tremaglia, la sua astinenza non influisce più di tanto sulla politica italiana. Certo, è vero: a seguire le cronache del nostro Paese si appurano fatti obbrobriosi, (ultimo, il Montepaschi di Siena), nei quali eccedono corruzioni, ricatti, manipolazione degli eventi ed i numerosi privilegi di politici, burocrati, imprenditori pubblici e privati. E la politicizzazione di tanti Magistrati e la loro inerzia, nonché quella di molti giovani che, muniti di laurea, si rifiutano di svolgere lavori manuali preferendo fare concorsi e sperando che qualche politico amico riesca a farli entrare in un ente pubblico o in qualche ministero. Non a caso Francesco Alberoni espresse “il dubbio che molti di loro siano presi dalla sfiducia e abbiano addirittura paura a spostarsi, a rischiare in un ambiente nuovo e difficile. Qualità che avevano i loro nonni, i loro padri che emigravano, ma che loro hanno perso in casa, a scuola, nel gruppo di amici, guardando la televisione, in discoteca, chissà dove”. Trattasi, dice il sociologo, “di esempi isolati da cui sarebbe un errore fare generalizzazioni”. Sui quali, comunque, è bene riflettere. Onde reagire in maniera opportuna. Votando, appunto, senza aspettare che scenda la manna dal cielo. E senza lasciarsi prendere dallo sconforto e pensare che le elezioni siano una farsa.
La non partecipazione alle urne non è tipica dell’Italia: basti pensare che negli Stati Uniti si aggira spesso sul 50%. A volte anche meno, gli elettori pensando, come il lettore che mi ha scritto, che nulla cambierà, dato che i politici sono tutti bugiardi e corrotti. Convinzione che da noi risale a tempi antichi, se il giornalista Piero Gobetti poté scrivere nel 1919: “Guardate la vita politica da un punto di vista di onestà illimitata: ne provate disgusto; e il disgusto degenera in astensionismo, scherno, indifferenza per i supremi interessi”. Insofferenza che impera ancora oggi, tanto da spingere Pietro Polito a scrivere su il Corriere della Sera (25/1/2013) che “l’astinenza sarà uno dei protagonisti, se non il protagonista principale, alle prossime elezioni”, con cui manifestare una concreta protesta. Indubbio che le continue polemiche ed i ricorrenti insulti tra esponenti dei diversi partiti influiscano negativamente sulla capacità di mobilitazione dell’elettorato, specialmente dei giovani al primo voto, che non si riconoscono in nessun programma. C’è però da rammentare che le votazioni sono il frutto di lunghe battaglie combattute in nome della democrazia. Non rappresentano solo un diritto, ma anche il dovere di vagliare in base alle proprie opinioni politiche ed alle caratteristiche individuali dei candidati, alla loro esperienza, ai programmi espressi ed alle possibilità reali di realizzarli. Il che non è facile con il vigente Porcellum che, anche per effetto delle pluricandidature, proibisce al popolo di scegliere chi mandare al Parlamento. Nonché di sapere in anticipo chi diventerà Ministro e di quale Ministero.
Però, come scrive Beppe Severgnini, “la democrazia italiana zoppica, ma non è morta”. E l’astensione non è una soluzione: anche se andasse a votare meno della metà degli aventi diritto, il nuovo Parlamento si insedierà ugualmente e prenderà decisioni che riguardano tutti, anche i non votanti. La preferenza espressa attraverso il voto, invece, serve ad allontanare personaggi che suscitano antipatia, incertezze sul futuro e timori ed a scegliere chi, a dispetto della più volte sperimentata infedeltà alle promesse fatte in periodo elettorale, spesso dovuta a “tradimenti” degli alleati, si ritiene possano produrre i cambiamenti sociali desiderati, quali la crescita della giustizia sociale, dell’equità fiscale, del lavoro e della stabilità economica. Il voto non determina solo il futuro degli interessi della classe politica, ma anche quello dei cittadini e dei loro parenti, perché l’eletto deciderà su come regolare la società e l’economia, sulle tasse, sui servizi pubblici e sulla cultura. Solo votando possiamo decidere sulla qualità della vita, nostra e loro. E su come saranno gestiti i nostri soldi.