«Finalmente il primo atto di giustizia per l’eccidio di Cefalonia». Le parole che si leggono nel comunicato dell’ANPI, l’Associazione Nazionale dei Partigiani Italiani, fotografano un’attesa durata 70 anni. Tanto c’è voluto perché si arrivasse, lo scorso 18 ottobre, alla prima condanna per l’eccidio di Cefalonia, perpetrato dai tedeschi nei confronti dei soldati italiani della Divisione Acqui all’indomani dell’8 settembre 1943.
La seconda sezione del Tribunale militare di Roma, presieduta da Antonio Lepore, ha condannato all’ergastolo l’ex nazista Alfred Stork, giudicandolo colpevole dell’uccisione di almeno 117 ufficiali. Si tratta di una sentenza storica, anche per via del riconoscimento del diritto di risarcimento delle parti civili, tra le quali era stata ammessa anche l’Associazione dei partigiani.
Tutti i procedimenti giudiziari precedenti si erano conclusi con l’archiviazione o erano rimasti senza conseguenze per la morte dell’imputato (vedi il caso dell’ex ufficiale Otmar Muhlhauser). Questa volta, invece, la sentenza è arrivata, anche se si tratta soltanto del primo grado e dunque potrà essere appellata. Ma il suo valore simbolico è innegabile.
Il condannato, Alfred Stork, ex caporale della terza compagnia del 54esimo battaglione “Cacciatori da montagna” ha oggi 90 anni e vive una serena e tranquilla vecchiaia nel paesino di Kippenheim, nel Baden-Württemberg, vicino a Friburgo. Ha sempre evitato di presenziare al processo che lo riguardava ritenendosi innocente, solo costretto ad obbedire agli ordini dei superiori, come si dice nel più classico e mistificante dei copioni con cui gli ex nazisti sono soliti autoassolversi dai crimini commessi. «Stork è un capro espiatorio» ha spiegato il suo avvocato difensore Marco Zaccaria, «un semplice caporale che non poteva disattendere quegli ordini in quel particolare momento storico».
L’avvocato ha annunciato ch il suo assistito presenterà ricorso non appena verranno rese pubbliche le motivazioni della sentenza di condanna: «La condanna è eccessiva. Resta da vedere quale sarà la posizione della Germania di fronte a un’eventuale richiesta di estradizione». Sulla partecipazione di Stork alla mattanza di Cefalonia non si cono dubbi. È stato lui stesso ad ammettere di aver fatto parte di uno dei due plotoni d’esecuzione che il 24 settembre 1943 massacrarono i militari italiani alla “Casetta Rossa”.
Lì caddero 129 ufficiali, praticamente l’intero stato maggiore della Divisione Acqui. L’ex nazista ne parlò nel 2005 davanti ai magistrati tedeschi sempre asserendo di avere soltanto ubbidito agli ordini senza nessuna possibile alternativa. Ma questa linea difensiva è stata contestata da Marco De Paolis, procuratore militare di Roma, il quale nel marzo 2012 ha firmato la richiesta di rinvio a giudizio adducendo argomentazioni che evidentemente sono state accolte dal Tribunale.
«La condanna afferma un principio molto importante – sottolinea De Paolis – ovvero che gli ordini illegittimi non devono essere eseguiti e che nessuno può farsene scudo per giustificare crimini tanto orrendi. Anche i soldati devono rifiutarsi davanti a ordini scellerati. In tanti hanno detto no, e le fucilazioni non sono proseguite». A Cefalonia purtroppo le cose andarono diversamente. Dopo l’annuncio dell’Armistizio di Badoglio i nazisti piombarono sull’isola dove erano di stanza la Divisione Acqui, con anche carabinieri e forze della Regia Marina. L’ordine tedesco era perentorio: arrendersi consegnando le armi oppure l’esecuzione.
Il generale Gandin, comandante della Acqui, cercò di prendere tempo, mentre molti dei suoi uomini decisero subito di fare resistenza. La battaglia la vinsero i tedeschi e gli italiani superstiti si arresero. Avrebbero dovuto godere dello status di “prigionieri di guerra”, senza contare che le convenzioni militari imponevano un trattamento umano per i militari che avevano deposto le armi. Invece scattò la carneficina. «La sentenza di condanna restituisce un po’ di giustizia a coloro che furono protagonisti del primo atto di resistenza militare» ha affermato Ernesto Nassi, vicepresidente dell’ANPI di Roma. Ma la soddisfazione è esile.
Intanto ci sarà un appello e si andrà per le lunghe prima di vedere, forse, una condanna definitiva. Inoltre è una giustizia che arriva con ritardo clamoroso. Di buono c’è che l’ANPI ha provveduto a filmare tutte le udienze del processo, che verranno poi montate in un documentario utile per tenere desta l’attenzione e la memoria storica.