L’obiezione di coscienza nella Sanità italiana sta diventando allarmante, lo dicono i dati del Ministero e la cronaca

Le sue radici concettuali risiedono nell’autotutela e nel diritto di resistenza, nonché nella libertà di coscienza e, quindi, nel diritto all’autodeterminazione. Da un punto di vista squisitamente etico-esistenziale l’atteggiamento di opposizione alla norma di comportamento eteroimposta risulta scaturire dalla fedeltà interiore ad un dato assiologico ritenuto supremo (di matrice religiosa o laica che sia), tanto elevato da sovrastare le leggi deputate a preservare il patto sociale. La stampa, anche nazionale, si è molto occupata della sentenza di assoluzione in appello di una farmacista triestina, ma operante a Monfalcone, che si era rifiutata di vendere la cosiddetta pillola del giorno dopo (che può avere effetti abortivi) ad una coppia che ne aveva fatto richiesta nella farmacia ove lavorava.

Il fatto risale ormai a cinque anni fa. L’assoluzione era già arrivata in primo grado, ma la procura aveva fatto ricorso e siamo così arrivati a questa seconda sentenza di assoluzione. Gran parte dei commenti è stata di soddisfazione, e giustamente per la coerenza di vita e il coraggio della testimonianza da ella dimostrato. La dottoressa aveva fatto obiezione di coscienza circa la sua collaborazione ad una interruzione di gravidanza per via chimica, aveva rischiato sulla propria pelle e, come una moderna Antigone, aveva preferito obbedire alla legge degli dei piuttosto che a quella degli uomini.

L’evento è degno della massima attenzione anche per il suo contenuto, ossia il riconoscimento del diritto all’obiezione di coscienza. A questo proposito l’occasione è propizia per fare qualche ulteriore riflessione. Va tenuto presente che il giudice di primo grado non aveva riconosciuto il diritto dell’accusata all’obiezione di coscienza, ma l’assoluzione era stata motivata dalla leggera entità del danno provocato.

Se la motivazione della sentenza di appello dovesse confermare questa linea, risulterebbe quindi eccessivo parlare di “vittoria del diritto all’obiezione di coscienza”. Ciò, naturalmente, nulla toglie al valore del comportamento della signora, ma impedisce di cantare troppo presto vittoria sul fronte del riconoscimento dell’obiezione di coscienza. La strada verso il riconoscimento dell’obiezione di coscienza è ancora lunga e sarà anche molto accidentata se non si chiariranno i suoi veri fondamenti.

L’attuale cultura giuridica, infatti, non è in grado di distinguere quando l’obiezione di coscienza è fatta “per obbedire alla legge degli dèi”, vale a dire per rispettare valori di ordine oggettivo, e quando è fatta per coerenza con un desiderio individuale.

Logica vorrebbe che il primo tipo di obiezione di coscienza fosse difeso dalla legge, mentre il secondo no. Ma per farlo bisognerebbe avere una cultura giuridica fondata sull’oggettività del diritto e sulla sua relazione con un ordine morale. Viceversa, anche una donna incinta potrebbe fare obiezione di coscienza a che il figlio nasca. E non si può contemporaneamente convalidare l’obiezione di coscienza della farmacista che non vuole collaborare ad un aborto e l’obiezione di coscienza di una mamma che vuole invece abortire. Solo il primo può essere un diritto contemplato.

Questo, solo per dire che il riconoscimento del diritto all’obiezione di coscienza non può fondarsi solo sul diritto ad essere coerenti con la propria coscienza, ma dovrebbe estendersi ai fondamenti oggettivi ed indisponibili della coscienza. Ma questo esula dalle possibilità della cultura giuridica di oggi, purtroppo. Siamo sicuri che il comportamento della signora oggetto della sentenza rispondeva al significato vero del diritto all’obiezione di coscienza, come adesione a dei valori indisponibili e a carattere assoluto e vincolante ogni coscienza che voglia dirsi retta. Il suo gesto ha quindi portato avanti la giusta causa del riconoscimento di questo diritto. La sentenza, invece, non ancora del tutto. Per questo c’è da augurarsi che il gesto emblematico della farmacista triestina possa essere imitato anche da altri e indurre così una nuova e corretta visione giuridica dell’obiezione di coscienza.

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