Nella foto: Goethe e Schiller ©DM, CdI

Nel 220° anniversario della prima rappresentazione in Italia della Maria Stuarda

Nel bel mezzo della guerra contro il corona-virus, mentre il cinquecentesimo anniversario della morte di Raffaello è trascorso fra mille difficoltà degli allestitori della mostra relativa alle scuderie del Quirinale; mentre le celebrazioni per le analoghe ricorrenze di Beethoven e Max Weber segnano il passo; ci piace segnalare un altro poco segnalato anniversario, il 220° anno dalla prima delle rappresentazioni della tragedia di Schiller “Maria Stuarda”, eseguita in Italia a Livorno nel 1830, che ebbe come spettatore d’eccezione un giovane Giuseppe Mazzini, già suo attento lettore, che proprio in quella città vide una superba interpretazione della Compagnia Marchionni di Milano, in odore di simpatie liberali e dove la sua principale attrice, Carlotta, fin dal 1815 aveva avuto per fidanzati Silvio Pellico e Piero Maroncelli.

Mazzini, fra il settembre e il novembre di quell’anno, su mandato della carboneria genovese, seguì la compagnia, apprezzò la bravura di Carla, a Livorno conobbe il Guerrazzi e il gruppo carbonaro toscano, ma il 13 novembre, al suo ritorno a Genova, venne arrestato e internato per 2 anni nel forte di Savona. Qui, rilesse Schiller e l’ultimo Goethe, che aveva osservato come dopo Napoleone, “per tutta Europa ferve uno spirito, un desiderio d’innovazione letteraria, che accusa la sterilità delle norme antiche e le insufficienze degli antichi modelli….” “Io – continua Goethe – vidi l’aurora di una letteratura europea che nessuno dei popoli potrà dirla propria, ma tutti avranno contribuito a fondarla”.

Ma su quali basi?

Nel poderoso saggio “il dramma storico” dello stesso anno, il Nostro pensatore accettava in pieno il messaggio dei due dioscuri tedeschi, che in via preliminare avevano infranto i modelli classici, erano contrari a una letteratura sul mito nazionale e si opponevano ad una cultura legata a situazioni storiche e politiche immutabili. Piuttosto, Mazzini credeva al valore dell’opinione pubblica che superasse la staticità delle istituzioni. Tale era la sua fede nel progresso della civiltà europea, aperta alla fratellanza dei popoli, che avrebbero dovuto convivere in solidarietà sovranazionale, uniti in un pensiero solidale fondato sulla giustizia e la pace sociale. Di qui, la scelta della formula drammatica della storia come teatro di quei valori. Mazzini parte proprio della “Maria Stuarda”. È un opera di ampie proporzioni, dove la minuziosità degli eventi pretesa dalla storiografia illuminista e classicheggiante era un peso che allontanava quell’opinione pubblica che gli appare invece l’unico indice da seguire. In particolare presentò la nuova figura dell’autore che deve interpretare e discernere i fatti storici, rinvenendo il loro filo logico, la loro concatenazione, inventando il vero, segnalando episodi e personaggi specifici, spesso assenti delle sudate carte legate al mito classico, troppo scarno e a volte privo di quella modernità di valori che in Europa aveva avuto in Shakespeare un reale innovatore. Era questo il modello di Schiller, dove l’ideale morale e la tendenza alla astrazione di valori assoluti, rivoluzionava le forme teatrali piccolo-borghesi di un Carlo Gozzi, per aderire piuttosto al genio singolare che si contrappone alla società rassegnata a fare denari e a sopire ogni differenza, un deserto creativo illuminato soltanto dagli eroici furori di un Alfieri.

Uscito dalla prigionia e andato in esilio in Francia, dopo la rivoluzione di luglio del 1830, Mazzini frequentò la nuova borghesia francese di Guizot, ma ne uscì deluso perché la nuova classe dirigente parigina preferì accettare modelli letterari di evasione ben lontani dall’ideale rivoluzionario di rinascita morale, se non addirittura mistica, circostanza che già Platen aveva rilevato col suo “Edipo romantico” nei teatri tedeschi che avevano preferito del pari le avventure bucoliche di un Immermann. Era la stessa condizione che aveva investito il suo maestro Schiller un quarto di secolo prima.

Fra il 1798 e il 1800, Friedrich Schiller raggiunse l’apice di vita e di carriera artistica: trasferitosi in una casa urbana a Weimar da Iena, per stare anche più vicino al vecchio amico Goethe; compose in quell’oasi di cultura e di pace familiare, anche dietro un modesto benessere economico dopo molti anni di semipovertà, una triade di tragedie – “Il Wallenstein”- in cui esasperò il suo grido di libertà, ma di estrema rigidità morale, facendo del protagonista, giudicato fino ad allora negativamente per la sua spregiudicatezza nella guerra dei ‘30 anni, un eroe vinto dalla necessità, morto tragicamente senza speranza. Un altro “Don Carlos”, vittima delle circostanze, ma grande nella disperazione. Benché l’opinione pubblica avesse apprezzato il tremendo conflitto interiore rappresentato in ben tre tragedie dedicate allo sfortunato generale, interpretato storicamente con molta benevolenza; malgrado le fonti storiche narrassero di una strage di civili perpetrata nella cattolica Magdeburgo, a lui imputabile, ma che superficialmente era stata ridotta ad un mero evento eccezionale, che ne costituiva un semplice tormento interiore. Tuttavia, Schiller non era contento del risultato estetico.

La disumanità evidente di quel generale lo inquietava: come poteva essere considerato un eroe senza poter espiare il suo delitto?

L’attentato e la relativa morte avevano interrotto il processo espiativo, la politica machiavellica si era autoemendata e la punizione morale era venuta a mancare. Occorreva un passo avanti in direzione del protagonista, stavolta una donna, vittima di un intrigo di Stato, amata e amante impossibile, segnata da una morte tragica da Lei prima voluta e poi subita. Bazzicando nella storia inglese, traducendo Shakespeare e Gibbon, Schiller trovò il personaggio, Maria Stuart, divenuta “Stuarda” in italiano nella stupenda opera lirica di Donizetti (1835), italianizzata del librettista mazziniano Giuseppe Bardari. Doveva ora umanizzare e quale migliore eroina poteva essere colei che politicamente si era opposta alla regina e cugina Elisabetta?

Con una tecnica da fiction insuperabile, i cinque atti della poderosa tragedia sovrappongono la contesa politica al fatto personale del motivo d’amore per lo stesso uomo, il cortigiano per eccellenza, un oscuro personaggio appena lambito dalla storia vera, il conte di Leicester. Se è vero che al fondo permangono le idee già espresse a commento di Kant l’invenzione del vero e lo scontro fra morale e Realpolitik – ricreò la figura della protagonista Maria, regina di Scozia, chiusa nella torre di Londra in attesa di giudizio per aver favorito la morte del marito inglese di Lei scozzese, futura erede al trono di Londra, erede legittima di Enrico VIII. Ebbene, mentre Elisabetta, al potere benché illegittima, era titubante nel firmare la condanna a morte; Maria soffriva per il peccato d’amore commesso e abbandonò ogni velleità di potenza, cattolicamente pentita, quanto era ipocrita la protestante Elisabetta, che non sapeva come uscire dall’impasse in cui si era posta, facendola incarcerare senza prove definitive di colpevolezza, temendo piuttosto che l’opinione pubblica si sollevasse per salvare l’innocente, punita più per quello che era e non per quello che aveva ordito.

Il confronto tra le due donne è quel sublime confronto fra la politica e la morale, fra Machiavelli e Kant, fra il bene e il giusto da una parte e la gestione del potere di chi da esso è logorato, per dirla con Andreotti. Certamente, Schiller propendeva per Maria, un’eroina affamata di libertà e che vuole essere solo felice, che ama finalmente chi non le è stato imposto. Ma contemporaneamente capì le ragioni dell’altra, di una Elisabetta che non può cedere di un passo a chi la potrebbe tradire; e che non batterebbe ciglio ad ucciderla. Non Maria, ma quel conte di Leicester, amato dalle due, pronto a saltare sul carro del vincitore, pronto anche a tradirla se non fosse altrettanto pronto ad eliminarla. Non Maria, ma un nobilotto, Mortimer, che non si vergognava di predisporre un complotto – questo è vero, la c. d. congiura del duca di Babington – dove la liberazione di Maria operata con la forza la avrebbe messa sul trono a danno di Elisabetta, ma che avrebbe avuto come futuro regnante lo stesso Mortimer, già violentatore della povera carcerata. Erano qui simbolizzate le contemporanee illusioni sui nobili ipocriti che già al tempo di Schiller e di Mazzini presenziavano la scena politica solo se si fosse pensato ai tanti camaleonti rivoluzionari francesi e fra i carbonari italiani. L’ultima carta di Maria, per salvarsi dalla forca di Elisabetta, è il colpo di scena di Schiller: l’incontro diretto fra le due eroine, l’una buona per forza di volontà, l’altra cattiva per necessità. Il dialogo è serrato, un confronto personale fra le due amiche-nemiche, tanto grandioso nelle battute, quanto falso nelle verità, immaginato dal drammaturgo tedesco in armonia al suo piano estetico. E vincerà la perdente Maria, solo perché ha detto la verità, svelando cioè per un attimo quel dolore interiore per uno sbaglio d’amore che la portò a far uccidere dal suo amante Bothwell il marito Lord Darnley. La morte sul patibolo era la logica conseguenza della sua vittoria morale. Tale era una effettiva minaccia al Regno: Elisabetta ha ben capito che l’ammissione di quella colpa le avrebbe messo a rischio il suo potere, dove la menzogna era il fondamento del suo come di ogni altro.

Con questi tratti di penna, Schiller passa al romanticismo senza se e senza ma, facendo di Maria un simbolo di Fede che attirerà molti giovani sulle spiagge della libertà, primo fra tutti lo stesso Mazzini che leggerà in questa epopea le stigmate del futuro rivoluzionario europeo. E a suggello di quella scelta – che influenzerà i sacrifici di tanti giovani della Giovane Italia, dai Fratelli Bandiera fino all’impresa suicida di Pisacane – Schiller infarcì le scene della sua tragedia di personaggi apparentemente minori, che pagheranno con la vita la simpatia per Maria: per esempio il povero Devison, segretario di Stato, reo di essere propenso alla liberazione; o la figura straziante di Amias Paulet, cavaliere, suo custode. Tutti incolpevoli, ma giustiziati solo per dare all’opinione pubblica i capri espiatori piuttosto che un cedimento di potere.

L’unico che non comprese bene il motivo fortemente innovativo della tragedia fu proprio l’amico Goethe, che la sera della prima a Weimar – il 14.6.1800 – poco prima che si alzasse il palcoscenico, apprendeva della vittoria di Napoleone a Marengo contro gli Austriaci, che abbandonarono definitivamente la Lombardia e il Piemonte, mentre a Genova nascerà una Repubblica democratica filo francese. Già l’Olimpico aveva avuto perplessità sulle opere dell’amico per essere intrise di un protagonista invisibile, il Destino. Ruolo che emerge proprio dalla scelta di rappresentare gli ultimi tempi di Maria isolata in carcere. Una prigione che Schiller alternò volutamente con la corte di Elisabetta. Goethe non comprendeva che si trattava di due “sorelle” regine del destino, che piuttosto è il vero soggetto del dramma. Come pure il Vate di Weimar non vedeva il conflitto politico che invece Schiller abilmente simulò dietro il conflitto d’amore. Ma di cosa erano vittime allora? Semplicemente di un determinismo sociale, che Goethe stentava a comprendere. Diciamo di un grande paradosso che investì il loro rapporto, testimoniato da un fitto carteggio di reciproco rispetto, anzi di sincera amicizia personale. Ma l’idea di vita, la rispettiva Weltanschauung rimase ben distinta. Wolfang studioso della natura, vedeva nella costante mobilità dell’universo una legge stupenda di giovinezza, di bellezza, di armonia, sempre in cammino verso la verità. Certamente, non sottovalutava il progresso dell’umanità, ma riteneva che la politica fosse un momento incidentale della storia, anche quando questa producesse violenza e oppressione, perché la natura delle cose avrebbe rimesso a posto la situazione.

Ma non era questo anche un determinismo?

Se guardiamo i suoi resoconti giornalistici sulla invasione di Magonza e sulle guerre napoleoniche sul Reno, Goethe metteva in luce soltanto che il mondo si sarebbe di per sé messo a posto, perché così è sempre stato…Schiller invece rilevava una certa stabilità nei rapporti sociali e politici, ma rifiutava l’incapacità dell’uomo di ribellarsi per la sua innata sete di libertà. E proprio nella “Maria Stuarda” Schiller vide segni di libertà politica e sociale, di fronte ai personaggi che cercano di interrompere la cappa naturale che li avvolgeva. Elisabetta era scellerata nella sua follia di potere e godeva di quella natura. Le viltà del cortigiano e del mostro che è Leicester; mentre Burleigh, il tesoriere della Corona, è il servo sciocco, senza contare Talbot, ministro della giustizia che era pieno di dubbi. Una galleria di tipi umani che Goethe nel suo Faust ha pienamente e tragicamente ripreso, ma che Schiller aveva già creato in modo epico attraverso personaggi che sembrano raccontare il loro destino. L’unica che lo interpreta per modificarlo è proprio Maria. Perciò è la classica ribelle che si oppone al mondo prima che questi la possa inesorabilmente inghiottire. Goethe è l’ottimista della speranza; Schiller il pessimista storico, che come Leopardi viaggiava verso il pessimismo cosmico, che lo renderà per sempre l’autore di un eterno immutabile. Una visione drammatica e profetica, quasi anticipatoria del teatro contemporaneo del Brecht dell’”Opera da 3 soldi”, quando il coro finale dei malviventi lugubremente chiudeva la scena cantando di una libertà da sogno lontana dalla realtà. Ed è per questa straordinaria capacità di perpetua modernità che fa ancora che si reciti in tutto il mondo questo straordinario testo di Schiller, ripreso dal compianto Zeffirelli e dalle grandissime Valentina Cortese e Rossella Falk fino agli anni ‘90 dello scorso secolo. Un insegnamento che dovrebbe far riflettere le nostre classi dirigenti ormai necessariamente dedicate alla ripresa dell’economia e delle società, dimentiche del dramma umano al di là della contigente pandemia. Un ruolo attivo del teatro che oggi non ci può più mancare.

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